Life is sweet: viaggio nel Sud Sudan con i medici del Cuamm e tre cantanti, Niccolò Fabi, Max Gazzé e Daniele Silvestri.

di Paola Pastacaldi, 28 luglio 2014

Un matrimonio inusuale tra una storica associazione di volontari, quella del Cuamm, di medici che operano nel Sud Sudan dal 2006, e Niccolò Fabi, Max Gazzé e Daniele Silvestri, tre cantanti romani di fama, amici e colleghi. Un viaggio nel Sud Sudan (nell’Africa sub sahariana, dove l’80 per cento dei decessi è causato dalla malaria), verso la città di Yirol, nello Stato dei laghi per la precisione, a 280 chilometri dalla capitale Juba. Siamo nel Sudan che si è reso indipendente dal 2011, una economia tra le più deboli al mondo. Come spiega il direttore don Dante Carraro, il Cuamm, che ha sessant’anni di vita alle spalle ed è la prima organizzazione italiana che opera per la tutela della salute delle popolazioni africane (Angola, Etiopia, Mozambico, Sierra Leone, Tanzania e Uganda), non lavora per l’Africa, come si usa dire spesso nelle associazioni di volontariato, ma con l’Africa. Una particella che cambia la sostanza delle cose, lavorare insieme significa anche altro, per esempio essere riconoscenti di poterlo fare. Uno scambio di ruoli che ribalta le carte? Certo e molto. L’Africa bisognosa non deve più nulla a nessuno e recupera la sua dignità di fronte a coloro che l’aiutano a non morire. E’ una carità che rende gli africani assistiti uomini liberi. Un operare, dunque, speciale che sta dando ottimi risultati ai medici del Cuamm e che andava raccontato, anche per sensibilizzare chi può dare una mano, in tutti i sensi, anche in senso economico. Life is sweet è il titolo di questo documentario web che da pochissimi giorni si può vedere in Internet. Testimonial assolutamente particolari Niccolò Fabi, Max Gazzé e Daniele Silvestri. Tre voci, dal cuore sensibile. Una scelta non facile, quella di fare questo viaggio. Un viaggio nel Sud Sudan, dove si muore per poco o nulla, non è come andare nei resort o al mare negli albergoni dei depliants, dove c’è di tutto anche se sei in un paese povero. Che dei cantanti potessero raccontare l’Africa più sofferente non è una novità, era già accaduto con il brano musicale We are the World di Michael Jackson e Lionel Richie, prodotto per l’Etiopia dopo una carestia a scopo benefico, che nel 1985 aveva commosso tutto il mondo (a dire il vero fu una operazione anche molto discussa sotto il profilo umanitario). Ma a pensarci bene, chi meglio di un cantante, che è anche un poeta, può descrivere la sofferenza e l’amore fattivo che suscita in chi sta bene insieme al bisogno di aiutare un proprio simile a non morire, per colpa di malattie da noi debellate? I nostri inusuali testimonial, Niccolò Fabi, Max Gazzé e Daniele Silvestri, con semplicità, e molta naturalezza ci aprono le porte al difficile mondo che sta oltre i confini del benessere. Si mettono in gioco, come si dice, e intorno a loro comincia a girare un mondo ben diverso da quello dei concerti o dei soliti viaggi al sicuro. Un mondo che diventerà anche il soggetto di un primo disco, cui seguirà un album che uscirà a settembre. Ma torniamo all’Africa. Il documentario Life is sweet (che si può vedere nel sito del Cuamm, www.mediciconlafrica.org), è diviso in tredici sezioni ed ha la struttura di un viaggio autentico con la jeep che corre su terribili strade mai asfaltate alla scoperta del paese e dei suoi abitanti e, ovviamente, delle strutture mediche create dal Cuamm. Non ritengo sia mai sufficiente spiegare in Italia il divario che c’è tra un’Africa immaginata dai più e quella vera, densa di contrasti, non sempre facili da capire per un occidentale. Tra la povertà e la malattia che uccide e anche il loro progresso economico e il diventare indipendenti, ma insieme sempre più poveri o, forse, come accade oggi per la Nigeria o il Kenya o per l’Angola, vantare una improvvisa e veloce modernizzazione di una parte del Paese, mentre l’altra continua a morire. Tra indipendenze che a volte si rivelano più dure del colonialismo, tra dittature rosse che falliscono e tradiscono tanti sogni e tante faticose battaglie come in Eritrea. Ecco perché non è il Cuamm il protagonista del video. Sono, invece, gli abitanti di Yrol, gli indigeni che arrivano da lontano facendo a piedi chilometri e chilometri per curarsi, sono le mamme incinte e i tanti, tanti bambini che sorridono o piangono per paura, sono i loro gesti, i loro balli, le loro mucche dalle corna lunghissime, i loro bastoni battuti a terra per dare il ritmo ai balli, gli ombrellini per proteggersi dal sole, sono le difficoltà per arrivare in ospedale con le macchine che si impantanano inesorabilmente nel fango e per tirarle fuori nasce come dal nulla una collaborazione corale di tutti, civili, militari, bianchi e neri, medici e cantanti. Una fatica immensa e una gioia immensa in cui – mi sento di dire - avviene il miracolo che non è più la sola solidarietà, gesto naturale di fronte alla sofferenza, ma è il lento trasformarsi del bianco benestante e, sì, anche ricco rispetto ad un indigeno, un bianco che ha tutto e che arriva ricco tra chi non ha nulla e diviene povero anche lui. In una semplicità e profondità di cuore che trasforma. Ed è forse qui che scatta la solidarietà fattiva. Il Cuamm ha bisogno di mezzi e anche di denaro. Ma questa solidarietà è generosissima verso chi la pratica. Lo sanno bene coloro che operano da anni in questi paesi con rischi non irrilevanti per la loro salute, non ultima la malaria. Non è retorica dire, come il Cuamm, che lavorare per l’Africa non è esatto. Chi viene qui lavora con l’Africa. Commuove l’afflato con cui il direttore don Dante, appena arrivato in un villaggio, vuole dire agli indigeni che sono i medici a ringraziare loro, la gente arrivata lì per curarsi. Sono i medici ad voler dire che sono riconoscenti per essere stati ammessi e accettati e poter lavorare con loro, i poveri. Il documentario si apre con una immagine del Nilo che sfila maestoso e racchiuso da sponde verdissime; una piroga corre spinta da due indigeni e dà la sensazione di un tempo immobile da secoli (forse è anche così), in primo piano la pelle rugosa di un ippopotamo che sonnecchia a pelo d’acqua, appena riconoscibile, come nei cartoni animati. Siamo nel Sud Sudan dove la malaria e il banale tetano uccidono migliaia di bambini. Non è un viaggio turistico, non ci sono resort né safari fotografici, questa è l’Africa vera. Daniele Silvestri, poi Niccolò Fabi raccontano la scelta di isolarsi per poter pensare e scrivere la loro musica e poi la decisione di partire, improvvisa, presa in due giorni, consapevoli dei rischi. La Jeep corre su terra rossa con i tre musicisti e don Dante che parla e spiega. “La nostra politica è favorire fortemente le mamme: se c’è una donna in difficoltà in un villaggio parte immediatamente una macchina e la va a prendere, tutto gratuitamente. Oppure diciamo loro, se state molto lontano, vi mettiamo nella waiting house e, quando dovrete partorire, c’è un ospedale lì vicino. Nel 2007 abbiamo cominciato a lavorare e contemporaneamente la cooperazione ha fatto Punto Italia. Abbiamo fatto la sala operatoria poi il centro infantile, il centro di emergenza. In cinque anni il lavoro è ancora cresciuto molto. Qui c’è gente che muore di tetano e noi siamo molto contenti: perché noi abbiamo solo una squadra di sei persone a fronte di un’area di 200 mila abitanti e tante patologie”. Nel documentario siamo alla sezione due, tutto è fermo, salvo il sonoro, il fastidioso suono di un’ambulanza che allerta lo spettatore senza fermarsi. La segnalazione del Cuamm è che bastano 15 euro per un trasporto in ambulanza. Molto semplice ed efficace. Chi non lo può fare? Lo stesso vale per i 10 euro per 10 vaccinazioni pediatriche. Terzo video, la macchina si imbatte in una mandria di vacche magre e solenni, hanno corna lunghe e un alto gibbo sul dorso. Le famiglie, qui, vivono insieme alle vacche e i bambini prendono il nome delle vacche. Pochi sanno che si faceva anche in Ucraina e anche nei nostri paesi, un tempo lontano e dimenticato. Come diceva Pasolini, l’Africa ci piace perché siamo noi, è come eravamo. Sudanesi altissimi ed sempre eleganti, vestiti da un drappo che copre una sola spalla, un altro indigeno che veste invece i moderni abiti della solidarietà e un cappello stile borsalino di un verde squillante, tutti sorridono e ballano e parlano, vogliono vedere il cellulare. Il rapporto con il Sudan comincia. Ancora strade battute rossissime; col tramonto e con la sua bellezza arrivano le zanzare e lo spray a difendersi, poi la notte. E’ buio come mai lo possiamo vedere in Italia, non ci sono luci pubbliche. Solo quelle dell’auto. Spuntano alcune case di lamiera illuminate dentro. Un bel piatto di spaghetti attende i viaggiatori. E mentre si mangia circola tra i commensali un grafico con il picco della malaria: in una settimana 250 casi gravi. In tre, quattro giorni ci si ammala. La paura della malaria condisce la cena, con risate esorcizzanti. E, infine, la verità. La malaria è dura. “Qui nessuno l’ha mai presa la malaria?”, domandano i musicisti. “Qui tutti”, è la risposta senza appello. La frase non cancella le risate. Ma nemmeno la verità, qui ora le zanzare sono molte. Fioccano gli schiaffi per ucciderle. “C’è un prodotto specifico locale?”, domanda l’occidentale addentato dal timore. “Quello cinese, è migliore dei nostri”. Risate sui cinesi troppo bravi a copiare tutto. Breve corso di biologia sulle zanzare anofele. Nascono, si accoppiano e subito cercano sangue, sangue per non morire. E uccidono. Settimo capitolo. Arriviamo all’ospedale Yirol. Emergency spiega che non ci sono più posti letto. La gente dorme fuori e vicino a delle tende per ripararsi dalle zanzare. I bambini malati aspettano. Sono così belli e innocenti, anche se a volte hanno la morte dentro. Nell’ospedale c’è un bambino sulla barella forse di cinque, sei anni ha la malaria gravissima, per cui la pancia è gonfia, anche fegato e milza sono grossissimi, si riempirà di liquidi perché non riesce più a scaricare. Entrerà in coma e morirà. “Stringere la mano di una persona che ha la vita segnata, ti scava qualcosa nell’anima. Ma altrettanto vedere i piccoli appena nati e sapere che sono in buone mani e che vanno avanti e vedere l’entusiasmo della gente che lavora qui, ti riempie di gioia”, dice Daniele Silvestri. “E’ la gratitudine, il sentimento che provo ora più forte”. Nono spezzone. Meta Lui Yiro, non lontana, ma di fatto lontanissima. Si passa il ponte Italia, costruito dagli italiani. La solita strada rossa, accesa, sempre più scavata di buche. Buche impossibili da superare. Finché ci si ferma. Quasi sabbie mobili. Auto con avvoltoi sopra impantanate. Un camion riverso. Non si passa. Al lavoro per liberare le macchine, l’acqua corre sotto le ruote. Per liberare le auto arriva di tutto, militari, civili, autisti, gente di passaggio, nessuno si conosce e tutti si aiutano, si abbatte ogni frontiera. O ci si salva tutti insieme. O niente. Tutti scalzi raggiungono e auto e via di nuovo. Altro fango, altre sabbie mobili. La strada è poco più di un viottolo, quattordici ore per pochi chilometri. Ma mano a mano che sale la tensione per il viaggio l’offerta di aiuto propone mete più alte. Un infermiere nero impantanato con la sua bicicletta in mezzo metro d’acqua: perché non donargli una motocicletta per raggiungere i luoghi più impervi? O una borsa attrezzata per una ostetrica? Il documentario ora è a Lui. Li accoglie Stephen Dokolo, vescovo della diocesi di Lui, parla in inglese e si dichiara felice e grato del loro lavoro, della loro presenza. Il Cuamm ha dato grande speranza alla gente. Qui sta nascendo un ospedale con una scuola riconosciuta di ostetricia. Due anni e mezzo di studio. Per capire l’entità della scelta basta un dato. In Sud Sudan c’è una ostetrica ogni ventimila mamme che devono partorire. La gente sta all’aperto perché sotto la tenda fa troppo caldo. Voci di bambini che piangono, perché li pesano. Nel 2008 si facevano 386 parti all’anno, poi il numero è salito in verticale, con successo. Le mamme hanno accolto l’aiuto. Ora qui se ne fanno 500. Yiro ora ne fa più di mille. Arriviamo nella waiting house per le mamme. Paolo Setti Carraro, chirurgo, racconta il suo lavoro: “Gli interventi più classici sono la laparatomia, le peritoniti, un bambinetto incornato, le appendici”, fa vedere i macchinari e finalmente sentiamo le note di una musica locale, con quel ritmo semplice, ma inebriante. Qui il tasso di infezione operatoria è meno dell’1 per cento. Ottimo, è soddisfatto per ora il medico. Chiara Scanagatta, ostetrica, fa vedere la scuola per le ostetriche. Il pianto di un neonato pervicace e breve quasi a singhiozzi. Disturba e fa sorridere. Non siamo più abituati in Italia, dove non nascono abbastanza bambini, almeno fino a quando gli extracomunitari non si sposeranno con i nostri figli ricchi. Il video ora è fermo. La fascetta gialla del Cuamm spiega che con 40 euro si può donare un parto sicuro alla mamma e al suo bambino. Non siamo di fronte a richieste retoriche, ci teniamo a sottolinearlo. E’ la semplicità del messaggio che apprezziamo e quel pianto non è colpire le emozioni per ottenere soldi, ma la voce della vita che chiede di poter sopravvivere. Non si può rifiutare. Pietro Berra guida, ma è anche medico e spiega la routine. Centocinquanta uscite in un anno per raggiungere popolazioni che difficilmente verrebbero in ospedale. Un mucchio di donne che cantano e saltellano. Dante spiega in inglese, il suo leit motiv, che varebbe la pena di diffondere tra noi più che tra i neri. “Medici con l’Africa vi ringrazia. Noi esprimiamo la nostra gratitudine. Grazie molte”. Applausi. Ci vediamo a Juba. Il ritorno all’asfalto non cancella quello che è successo. L’asfalto al posto della terra piena di buche. Un po’ come la vita da queste parti. Sono istanti che dureranno sempre. Si chiude così il primo viaggio con il Cuamm, con una ricchezza dentro difficile da conquistare in altre parti e in altri modi. Anche solo per chi ha visto il documentario. Un viaggio nella vita e nella morte. Ritornando ad essere uomini. Il Cuamm offre anche un altro modo di aiutare: ci si può unire a loro come medici, ma anche infermieri amministratori, volontari in Italia, azienda privato. Mille modi di quel rivolo che guarisce.



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