Vecchi e nuovi attori si contendono l'Africa

di Gian Paolo Calchi Novati, 20 dicembre, Ispionline

Dopo essere stata per molto tempo la principale “arma” della politica africana dell’Italia e un po’ di tutti i governi occidentali, la cooperazione – che in genere precede o accompagna gli investimenti diretti – ha perso molto del suo potere contrattuale. Ancora nel 2005 l’aiuto all’Africa fu scelto come il tema di maggiore risonanza dal premier Tony Blair quando il Regno Unito era contemporaneamente alla testa del G8 e dell’Unione Europea. I tempi sono cambiati. Da una parte, i volumi dell’aiuto pubblico si sono ridotti: il target dello 0,70% del PIL è sempre lontano per la maggior parte dei donatori. Soverchiati dalle rimesse degli emigrati e avvicinati dagli investimenti, che sono concentrati però in pochi paesi fortunati, gli aiuti non sono più la voce principale dei flussi finanziari verso l’ex-Terzo mondo. Dall’altra parte, gli stati occidentali che in Africa hanno goduto a lungo di un quasi monopolio, appena scalfito dall’URSS al massimo della sua influenza negli anni Settanta del Novecento, fanno fatica a tenere il passo dei trasferimenti di fondi per aiuti diretti e opere pubbliche della Cina e degli altri paesi emergenti. Il Beijing Consensus rivaleggia con il Washington Consensus. Senza necessariamente approvare le “cattive pratiche” dei partners africani, la Cina, l’India, i paesi del Golfo, il Venezuela, il Brasile non gravano il proprio aiuto con le condizionalità che caratterizzano l’aiuto che fa capo a Banca mondiale, FMI, UE e Stati Uniti. Il Busan Partnership Document adottato nel 2011 si richiama esplicitamene all’importanza della cooperazione Sud-Sud raccomandando un suo coordinamento con la cooperazione Nord-Sud. Finora però c’è piuttosto concorrenza. Nei documenti italiani sulle linee d’indirizzo della cooperazione allo sviluppo, per esempio, non si trovano impegni, direttive o mere ipotesi in questo senso. Un primo passo potrebbe essere l’apertura del DAC dell’OCSE/OECD ai “nuovi” donatori. Il mondo occidentale si è de-industrializzato in misura crescente specializzandosi in finanze e servizi, su cui non a caso sono concentrate ora le trattative in sede di WTO, mentre si è intensificata l’industrializzazione del Sud per virtù proprie e per le scelte di de-localizzare operate da imprese del Nord. Il Nord ha perso alcuni pezzi del suo patrimonio anche in temi di “modelli”. La “diffusione di potenza” ha gratificato le nazioni emergenti del Sud che, attraverso una crescente penetrazione in Africa, si ritagliano più potere nell’insieme delle relazioni internazionali. Per gli stati africani le relazioni con il mondo esterno sono un fattore della transizione in atto verso una maggiore stabilità e una migliore governance. L’Africa non è più il retrovia negletto dei decenni “perduti”. In palio ci sono l’energia, le ricchezze del sottosuolo e la terra coltivabile. La Cina non agisce più in quanto potenza rivoluzionaria e si è adattata fin troppo allo schema classico della diplomazia come competizione per le risorse. Di fronte al diffondersi dell’insicurezza della navigazione nell’Oceano Indiano ha collaborato con l’azione complessiva di deterrenza e contrasto della pirateria per garantire le rotte da e per l’Africa. Quanto al petrolio, una delle poste più ambite, le “sette sorelle” della leggenda, l’ENI e l’ELF non sono più le sole compagnie a operare in Africa. Le imprese cinesi, malesi, indonesiane, indiane e la brasiliana Petrobras hanno sempre più spazio e concessioni. L’India ha il privilegio di contare sulla presenza, che risale all’era coloniale, di comunità indiane numerose e influenti in Africa orientale e Sudafrica. D’altra parte, sta crescendo di anno in anno il numero di cinesi che scelgono di restare nei vari paesi africani dove la Cina ha svolto attività minerarie, nell’edilizia o nelle infrastrutture. Fosse pure come posta strategica, l’Africa vede rafforzarsi e diversificarsi le sue opportunità. L’Africa vede Cina, India e Brasile come “partners per lo sviluppo” con una storia di successo alle spalle, che offrono un’alternativa allettante all’ortodossia neo-liberista e tanto più a una dipendenza di tipo neo-coloniale. Il presupposto è che il rapporto Sud-Sud sia win-win. La diplomazia delle risorse, l’assistenza allo sviluppo, la ricerca di mercati portano l’Africa e le potenze emergenti a convergere in una stessa vocazione a riformare il sistema per renderlo plurale e più equo. La globalizzazione nel Duemila come la decolonizzazione e Bandung negli anni Cinquanta? L’Africa, come certificano gli studi di Giovanni Arrighi sulla storia del capitalismo, non è mai stata in lizza per il primato in un’economia-mondo. Nella triangolazione Europa-Africa-America della tratta – un’operazione che inserì l’Africa in una dimensione mondiale come fornitrice di manodopera schiavile – la funzione dell’Africa era essenzialmente passiva. A differenza dell’Asia, l’Africa non ha precedenti storici a cui collegarsi per rivalutare la sua posizione in un sistema globalizzato. Le riforme imposte pressoché a tutti i paesi del continente dalle istituzioni finanziarie internazionali hanno spianato la strada all’emergere di un ceto sociale e politico che si sente obbligato a rispettare le regole del mercato: dopo gli eccessi dello stato “sviluppista” e “dirigista” dell’immediato post-indipendenza, l’autonomia e le stesse funzioni dello stato sono state indebolite oltre misura. Se si passa dalla cooperazione economica alla politica e tanto più alla gestione delle crisi, la sperequazione delle forze fra potenze vecchie e nuove è ancora netta. Il neo-colonialismo, pur nell’indeterminatezza del termine, implica una capacità multivettoriale che è una prerogativa delle sole grandi potenze con un’ampia gamma di strumenti a disposizione. Neppure la Cina ha nelle sedi multilaterali (ONU, Banca mondiale, WTO, ecc.) una capacità di incidere negli avvenimenti africani o che interessano gli africani paragonabile a quella degli Stati Uniti, delle ex-potenze occidentali e in prospettiva della Russia. Gli Stati Uniti competono in Africa in prima persona senza più delegare alle ex-potenze coloniali, come avveniva durante la guerra fredda, la tutela della “sicurezza” in loco. L’obiettivo è di preservare le posizioni di superiorità del Centro come luogo privilegiato per investimenti, innovazione e iniziativa politica. Con la fine della guerra fredda, gli Stati Uniti si sentirono minacciati dalla turbolenza e dai pericoli del mondo in via di sviluppo. Stati Uniti e alleati dipendevano in misura crescente da materie prime prodotte negli instabili paesi del Terzo mondo. Il focus della politica della sicurezza americana si spostava dalla lotta con l’Unione Sovietica per la supremazia globale alla lotta per mantenere le garanzie d’accesso alle ricchezze economiche e ai beni strategici nel mondo in via di sviluppo e quindi in Africa. A differenza dell’Europa, che considera l’Africa come un insieme, gli Stati Uniti prediligono le relazioni bilaterali con una priorità per le risorse strategiche. L’ultima potenza europea a difendere il tesoretto d’origine coloniale è la Francia. All’attivismo di Sarkozy nel 2011 (Libia e Costa d’Avorio) ha corrisposto il super-attivismo di Hollande nel 2013 (Mali, Repubblica Centrafricana). Il progetto di Hollande è più complesso di un semplice ritorno alla Françafrique e al pré carré. Il nuovo presidente socialista non ha in mente il gollismo, se mai Mitterrand. La Francia ha bisogno di rinnovare il personale politico nel suo ex-impero dell’Africa occidentale, anche se all’atto pratico ha percorso i sentieri già battuti e si è avvalsa ampiamente dell’appoggio di clienti collaudati come il Ciad sia in Mali che nel Centrafrica. Al di là delle singole fattispecie, la Francia potrebbe tendere a un rimaneggiamento di più ampio respiro, paragonabile a quello che si è realizzato fra anni Ottanta e Novanta nel Corno e nella regione dei Grandi laghi, favorendo l’emergere di una nuova generazione di politici che non tramandano passivamente i collegamenti d’origine coloniale. La novità è l’uso della forza (il nerbo o il limite dell’Occidente) non per difendere lo status quo ma per promuovere il cambiamento. Su questo terreno le potenze emergenti sono spiazzate. L’uso all’ONU del veto da parte della Cina sul Darfur o, in un altro scacchiere, sulla guerra civile in Siria non si spiega solo con il merito della questione trattata ma con il fine di ripristinare il metodo di una concertazione alla pari. Mentre la NATO interveniva in Libia appoggiando i ribelli contro Gheddafi, i membri del BRICS in un vertice in terra cinese condannavano non solo l’impresa singola ma la tendenza ad affrontare le crisi in Africa e nel Sud globale con le armi e fuori dell’ordine internazionale. Le Primavere arabe con il loro seguito hanno rappresentato un test importante di questo ondeggiare dell’Africa fra oggetto o soggetto della politica mondiale. Gli arabi si sono mossi per lo più di concerto con i paesi occidentali deludendo e scontentando l’UA e gli africani a sud del Sahara. L’exploit di Putin sulla Siria è stato interpretato in Africa come un tornante virtuoso per restaurare ovunque la legalità impersonata dalle Nazioni Unite. L’iniziativa del Cremlino ha riaperto una partita ad alto livello rilanciando il multilateralismo se non il multipolarismo. Nel bipolarismo il condominio russo-americano senza la Cina equivaleva a un accodo di coesistenza contro la Cina. La Russia, quantitativamente, non ha in Africa la stessa presenza della Cina ma proprio le vicende siriane dimostrano che Mosca ha un ruolo politico che Pechino non possiede o non intende esercitare riservando per ora le impennate da grande potenza all’Asia orientale, dove il “basso profilo” sempre raccomandato da Deng Xiaoping, cede a una politica auto-assertiva soprattutto quando sono in gioco questioni di sovranità. Come si ricava dalle varie crisi da nord a sua e da ovest a est, l’Africa è, per eccellenza, un continente contendibile. Sarà difficile che l’Unione africana riesca a far valere il principio che le crisi africane devono avere soluzioni africane, non foss’altro perché le crisi africane hanno sempre più spesso una portata globale. Gian Paolo Calchi Novati è Senior Research Fellow per l’Osservatorio sull’Africa dell’ISPI.



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