Fondo Zanella, Istresco di Treviso. L’Africa coloniale nelle foto degli anni Trenta

di Paola Pastacaldi

Nel corso di questi anni ho spesso potuto vedere raccolte fotografiche di italiani vissuti in Africa Orientale Italiana, raccolte private di familiari o eredi di ex coloni o di cittadini partiti alla ricerca di fortuna, operai ma anche piccoli imprenditori, artigiani e molti autisti. Ho potuto vedere anche le collezioni dell’Isiao, l’Istituto Italiano per l’Africa e l’Oriente, o come della ottocentesca Società Geografica Italiana di villa Celimontana a Roma, o di studiosi di storia dell’Africa coloniale. Ho sempre avuto, come giornalista, una particolare attenzione per le immagini del passato che potevano documentare la presenza degli italiani in Africa, il loro sentimento verso questa terra, il loro modo di vivere e, infine, il modo di “guardare” o meglio di “vedere” gli indigeni, sia nell’Ottocento che durante il periodo fascista, cui si aggiunsero poi anche le dure leggi razziali. Mi è accaduto spesso di scoprire che le foto raccontavano di più e in modo più integro e, alle volte, assolutamente nuovo rispetto alle cronache scritte, il paese in cui gli italiani furono presenti come viaggiatori e poi come colonizzatori. Negli scritti di fine Ottocento e dei primi del Novecento spesso testi, diari o racconti peccavano di una visione eurocentrica, in qualche modo “ignorando” la storia e la specificità dell’indigeno, cadendo persino in vistosi errori nel dare il nome alle cose. Mancava sovente agli italiani viaggianti o emigranti – fatte ovviamente le solite eccezioni - una volontà di cultura, cioè la conoscenza del paese e della sua storia sociale (cosa cui, invece, sempre i viaggiatori inglesi sopperivano in modo molto più ampio, un nome solo per tutti l’esploratore Richard Burton). Il territorio, i suoi usi e costumi erano visti con occhi troppo italiani o europei, ignorando alla fine la storia dell’Africa reale. Ma gli indigeni, soprattutto di Etiopia ed Eritrea, che come sappiamo oggi sono stati la culla dell’umanità intera, avevano eccome una loro storia, sia per la gestione del territtorio che per le loro regole sociali e a questo proposito si possono legere molti studi anche in lingua inglese. Nelle foto storiche sia di privati che di studiosi si ha modo di vedere con maggiore chiarezza, scevra da giudizi e personalismi, come era allora il territtorio africano e i suoi abitanti e il loro rapporto con noi. Attraverso l’Istresco di Treviso cui sono ricorsa, sempre alla ricerca di testi del periodo coloniale, soprattutto degli anni Trenta, ho potuto vedere le foto del Fondo Fotografico Zanella degli anni Trenta, depositato all’Istituto dagli eredi. Il Fondo Zanella è stato una scoperta. Le foto private, tra cui anche molte cartoline di indigene come si usava all’epoca, sono state fatte in Eritrea, Asmara, Massaua, Cheren, Decamerè, Fil Fil, Adi Ugri, ma anche una più piccola parte in Etiopia, a Gondar, la terra dei castelli medievali, e Adua, il luogo della catastrofica sconfitta militare, in cui gli italiani furono battuti dagli indigeni. Le foto documentano la vita di una coppia veneta. Ma a parte il lato privato, che mettiamo ai margini per rispetto della privacy, i paesi citati, che non dicono nulla nemmeno al più agguerrito turista odierno, dicono molto a chi ha letto la “Guida dell’Africa Orientale Italiana” del Touring Club del 1938. Si tratta di paesi dove il Fascismo aveva fatto costruire, chiese, bar, caserme, centri agricoli, scuole professionali, persino teatri, creando dei verei e propri centri cittadini di tipo italiano. In luoghi perduti nel vasto territtorio dell’Africa coloniale, dove le uniche case erano poche e scarse capanne. La rilevanza del Fondo, ciò che lo rende diverso da altri che ho potuto vedere, è il suo forte e spiccato carattere coloniale. Dove per coloniale non intendo solo l’italianità dell’epoca fascista con le sue dure leggi di divisione tra i citadini metropolitani e gli indigeni, ma anche del rapporto che nonostante tutto legava bianchi e neri. Le immagini sono spesso state prese in modo ravvicinato, dando una forte pregnanza emotiva alle scene che vengono fissate dall’obiettivo. La vita della coppia delinea un vissuto coloniale che sembra vivere a cavallo tra l’Africa forte di Hemingway, dedita alla caccia, e un’Africa fascista dove gli indigeni occupavano il posto più basso nella scala sociale a causa delle leggi razziali, ma insieme in alcuni casi dimostravano l’esistenza di una relazione con i loro colonizzatori mista a tratti di calore e complicità. Il rapporto dell’italiano con l’ Eritrea, con l’Africa, si delinea nel Fondo come un rapporto fortemente caraterizzato dalla passione per il territtorio, che in quegli anni significava sostanzialmente andare a caccia. L’uccisione di gazzelle o gnu o facoceri è fotografata senza remore di sorta. La gazzella è un trofeo, come lo sarebbe stata in un racconto di Hemingaway il leone. Vi è lo spirito dell’epoca nel sorriso vittorioso della coppia che ha catturato la preda (un po’ come raccontò Karen Blixen, dicendo che “non si sa cosa sia l’Africa se non si ha ucciso un leone”: gli ambientalisti mi perdoneranno questa citazione, ovviamente datata). Il rapporto con l’animale da uccidere è vissuto e fotografato in tutta la sua pienezza. Gli indigeni che trasportano, appeso ad un bastone, un piccolo coccodrillo infilzato delineano la vita in un’Africa che aveva ancora qualcosa di selvaggio. Gli abiti stessi, i calzoni da caccia con quell’ampio sbuffo che si usava negli anni Trenta e la cartuccera intorno alla vita, il fucile in spalla in mezzo ad una terra piena di acacie spinose. Tra le foto di non minore rilievo sono le immagini di indigeni dell’esercito coloniale, che indossavano la divisa degli ascari, dei sciumbasci e degli zaptiè, con le loro mantelline corte e il fez rosso col fiocco, con la fusciacca rossa e la divisa color cachi, spesso senza scarpe. Le foto delle donne indigene, moltissime a torso nudo, meritano un capitolo a parte. Sappiamo che in colonia il bisogno di “carne bianca”, come lo definirono i gerarchi e i politici dell’epoca, portò anche all’apertura di veri e propri casini. La conquista della colonia con le guerra d’Etiopia effettuata al canto di “Faccetta nera, bella abissina”, apriva la porta alla prospettiva di ampie conquiste sessuali. Come sanno gli eredi di ex italiani in colonia, la collezione di foto o cartoline con donne dal seno nudo sono parte integrante di quella memoria e sono certa che molti italiani di oggi le conservano dimenticate in qualche cassetto. Ne ho viste tantissime e devo sottolineare che quasi sempre si è tratta immagini una diversa dall’altra. I seni, di cui stupiscono le forme più strane, sembrano un trofeo di caccia che la foto cercava di documentare. Possiamo immaginare che curiosità bramosa per i seni nudi delle donne locali avessero gli italiani degli anni Trenta, provenienti da una campagna poverissima e cattolica. Il rapporto dei coloniali con le donne definite “madame”. Le donne indigene delle foto posano ignare e disponibili e raccontano di una totale donazione al fotografo, un cedimento inusuale per noi europei, in pose a volte osè con la naturalezza di chi non sa. Sembrano sempre ricordare che le donne nere per noi bianchi sono la copia della indigena di “Tempo di uccidere” di Ennio Flaiano, la quale per questa paura atavica venne banalmente uccisa dal civilissimo soldato in fuga, o la indigena di nome Vittoria del romanzo “Settimana Nera” di Enrico Emanuelli. Donne nere che, secondo gli italiani dell’epoca, non parlano, né pensano, ma esistono quasi esclusivamente per un uso sessuale ed erotico. Il lato a volte pruriginoso nelle pose e nei baci è sempre un dato aggiunto dal fotografo italiano, comprensibile per l’epoca, ma di cui si nota l’innnocenza della donna che subisce. In generale gli indigeni ritratti rappresentano una sorta di testimonianza antropologica, come il vecchio che pagaia nel fiume su una zattera di canne con un remo fatto (da lui) sempre di canne. O il volto rugoso del guerriero con lancia e barbetta, ma sempre solenne, quasi a dirci che l’Africa non è pura selvaggità, ma è anche nobiltà e storia antica e valori antichi. Una nota a parte merita l’architettura delle opere di ponti e strade, di romana memoria, opera del Fascio, che sembrano incidere il territtorio in modo assolutamente originale rispetto al vuoto che regna tra le ambe e le piane rivestite di boscaglia di acacie o palme. La natura vi regna sovrana, come è giusto. Le foto rappresentano baobab giganteschi, bananeti, alberi pieni di braccia interamente coperte di uccelli, paesaggi di fiumi quasi in secca che corrono come nastri nella campagna, i villaggi di tucul, i soldati indigeni, i vecchi con lo sciamma, a caccia anche loro. La piccola camerierina con grembiule bianco. I cammelli, gli asini stracarichi, le vecchie con fascine più grandi di loro sulle spalle. Immagini quasi clichè, che fissano l’Africa di sempre, di ieri e di oggi. Un po’ nostra, ma quanto loro? E insieme molte foto di soldati italiani, ignari di ciò che sarebbe accaduto con la guerra d’Etiopia. In particolare, una foto più vecchia di un gruppo di soldati del 1927 che posano per un ricordo in doppia fila. Dai loro volti si intuisce che non sono altro che poveri ragazzi della campagna alcuni baldanzosi, altri spauriti, finiti in colonia probabilmente nella speranza di guadagnare due lire, ma dal sorriso e dal volto di contadini trapela vistosa la fame di quegli anni tutta italiana.



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