Dibattito e riflessione. Guardando in faccia la morte attraverso le immagini dei media.

di Paola Pastacaldi

1. INTRODUZIONE. Le immagini sono nel mondo della comunicazione sempre più importanti. Possiamo dire, anzi, che lo sono nella nostra stessa vita sociale. Il nostro modo di pensare è plasmato dalle immagini che ci circondano quotidianamente, non solo attraverso I potentissimi media che sono la tv, i giornali, ma anche la pubblicità. Noi stessi ne siamo protagonisti e vittime. Le foto rappresentano per I giornalisti una notizia imprenscindibile, tanto da poterle chiamare una dittatura. Perchè dittatura? Perchè, se nel mondo esiste una foto di qualunque fatto di cronaca, è inevitabile doverla pubblicare. In quanto notizia appunto, notizia che supera la parola in quanto credibilità. Per i media colpire l’audience – come ormai tutti sanno – è un imperativo e una necessità di sopravvivenza. Tutti vogliono poter “vedere” la notizia, poco conta leggerla. Basandosi su questo assioma rafforzato dalla diffusione di Internet, non c’è un giornale che possa facilmente dire no alla pubblicazione di una foto. Si troverebbe fatalmente isolato. I media non possono ormai più sottrarsi alla dittatura delle foto. Solo I lettori potrebbero imporre uno stop, non comperando nè guardando I media che contengono foto sgradite. Decretando il crollo momentaneo del media. Ma sappiamo che ciò non accade. Il cittadino ancora non usa lo strumento potente che in mano, quello di negare diritto di parola a chi ne fa un cattivo uso, sia televisivo che cartaceo. Quello su cui varrebbe la pena di riflettere è il come pubblicare queste foto. Sul come pubblicare le foto non è stato ancora aperto in Italia un dibattito serio, professionale. In parole più semplici, I giornalisti non si sono confrontati, nè hanno pensato di creare nuove regole, di stendere riflessioni che possano orientare i professionisti della comunicazione nei casi più gravi, nel come pubblicare, nel numero di volte, nel taglio, con quali caratteri, in quale spazio in pagina, in quale ore in tv, in quali trasmissioni. I giornalisti hanno sì delle regole deontologiche che riguardano le foto raccapriccianti, ma la soglia viene ampiamente superata da una nuova realtà in cui il raccapriccio è sempre più grande. L’orrore è sempre più osceno. E’ questo un aggettivo forte, ma mi sembra il più adatto a descrivere ciò che le foto oggi riescono a riprodurre. Le foto sono ormai riuscite a farci vedere la morte mentre avviene. L’impensabile, prima del dominio della tecnologia. E c’è una notevole differenza tra vedere la morte con I nostri soli occhi o vederla mediata da un terzo che guarda per noi. L’assuefazione è stato uno dei gradi problemi di questi ultimi anni. Oggi forse sta arrivando la saturazione, la nausea? Servono nuove riflessioni, nuove regole adeguate alla nuova potenza della tecnologia. Il resto del mondo che partecipa alla comunicazione, cioè gli stessi lettori, telespettatori e cittadini, non sono invece rimasti fermi a quando le immagini erano poche e meno oscene. Il loro sentimento è cresciuto, anche se inconsapevole e non detto. Quello che ho potuto notare oggi, rispetto a sei, sette anni fa è che il pubblico ha come superato una soglia invisibile di tolleranza. Il volto insaguinato di Gheddafi mandato in onda a tutte le ore e ingrandito a dismisura ha creato una reazione di intolleranza nel telespettatore più semplice, quello che solo cinque anni fa avremmo definito acritico. Oggi l’aver superato la soglia invisibile della tolleranza all’orrore, ha creato il rifiuto, il fastidio, la negazione, la voglia di sottrarsi da parte dei telespettatori. Eppure in questi anni, da molti anni tante, tante foto dell’orrore sono sfilate sui nostri teleschermi, sono entrate nelle case, hanno esposto il dolore, la morte, la violenza degli uomini e della natura, senza dignità per chi era morto, senza paura di danneggiare chi era innocente e la morte non la poteva nemmeno immaginarla, come I bambini. Il volto insanguinato di Gheddafi, la postura del suo corpo sgraziata per la violenza della morte hanno inorridito molti cittadini che prima non si occupavano delle immagini della tv, anche quando violente erano già. E nessuna efferatezza attribuita al soggetto ha giustificato l’esposizione della sua morte in quel modo. E’ difficile valutare l’impatto di una pubblicazione, come sanno gli editori di libri, alle volte passa tutto inosservato, il libro anche più scandaloso non vende, alle volte un testo su cui nessuno avrebbe puntato un soldo, diventa un caso letterario, vende migliaia di copie. Oggi con Gheddafi sembra rinascere dalle ceneri una qualche forma di pietas che viene da lontano, una pietas introiettata in una infanzia morale dell’umanità, quasi incarnata nelle mente di chi guarda. Un pensiero che va oltre la cultura, oltre l’attenzione, oltre la specificità di chi commenta. Inattesa è arrivata la consapevolezza? Questo pubblico non vuole più vedere volti sfatti insaguinati e rotti come quello di Gheddafi. Quelle immagini hanno persino riportato alla luce della memoria il cappio al collo di Saddam, i soldati imprigionati nelle gabbie in Irak e poi decollati. Il cittadino ne ha avuto pietà? Forse semplicemente i cittadini, l’uomo qualunque dell’audience, si sono risvegliati e si sono ricordati del fatto che la morte ha diritto alla pietà della discrezione, perchè si sono ricordati degli anziani che hanno in casa e non desiderano pensare alla morte come uno strazio. Quando a ognuno di noi toccherà vedere la morte attraverso I genitori anziani, o peggio attraverso morti incidentali e violente, desideriamo poter contare sulla pietà. La pietà degli spettatori è una reazione squisitamente umana all’eccesso contro la dittatura dell’audience, contro la dittatura delle immagini. Gli editori e I giornalisti dovranno prima o poi tenerne conto. 2. ANALISI. Per dare un contributo a questa riflessione abbiamo ripreso in mano due saggi di Susan Sontag, “Sulla Fotografia. Realtà e immagine nella nostra società” (Einaudi,
‘73), uno dei testi basilari per chi studia la fotografia, e “Davanti al dolore degli altri” (Saggi Mondadori, 2003), pubblicato trent’anni
dopo, sempre sulla questione delle immagini. Susan Sontag è stata saggista e autrice di romanzi e
pièce teatrali. Ha diretto film (ed è apparsa in “Zelig” di Woody
Allen); si definiva una zelota della serietà, cioè una guerriera, di
pensiero liberal. Autrice, tra gli altri, oltre al saggio “Malattia come metafora” (Einaudi ’77). Abbiamo pensato che poteva essere utile anche per il pubblico di lettori rileggere il suo pensiero elaborato sulla fotografia, oltre che una occasione professionale per riflettere su cosa
significa per i giornalisti di quotidiani o di settimanali avere a che
fare ogni giorno con la necessità di rappresentare una realtà violenta, che è sistematicamente mediata da scatti fotografici di
fotocronisti o artisti e dalle riprese degli operatori. Cosa significa infine dover quotidianamente scegliere tra mille immagini
quella “giusta” da inserire dentro giornali e televisioni, laddove la
parola “giusta” assomma in sé due necessità apparentemente in
contraddizione, che sono la riflessioni etica e quella commerciale del
dover catturare più lettori e ancora più lettori di quelli che ha il
giornale concorrente. Abbiamo deciso di rileggere Susan Sontag consapevoli ormai del fatto
che i mezzi tecnologici sono in grado di farci vedere in un tempo quasi
reale, o potremmo anche dire più reale del reale, una realtà
assolutamente vera e insieme virtuale. Perché diciamo più reale del reale? Ma perché noi veniamo a
conoscenza di certe realtà delle quali abbiamo già avuto notizia
verbale o scritta in modo ripetitivo nelle diverse edizioni dei
telegiornali e dei vari quotidiani esposti in edicola. Ci troviamo
allora di fronte alla possibilità di vedere e rivedere gli avvenimenti
veri ed esserne spettatori privilegiati, in quando li vediamo e li
rivediamo rendendo ripetibile ciò che sarebbe, nella realtà,
irripetibile. La realtà accade, ma non si ripete mai nello stesso modo. Mai, grazie alle foto, ci siamo così avvicinati alla realtà nella
sua versione più crudele, sia per causa degli uomini che per volontà
della natura, come è accaduto nello Sri Lanka. Foto alle quali,
sappiamo, nessuno può sottrarsi, pur volendolo. La realtà dei media e
delle immagini vive ovunque, per la strada e nelle case. La fotografia digitale è così facile e alla portata di tutti da
rendere protagonisti anche i soggetti meno potenti nel processo di
ricostruzione che i media fanno della realtà. Come è accaduto in
Irak, con le foto di Abu Ghraib e le violenze ai detenuti. Michael
Ignatieff, storico e direttore del Carr Center for Human Rights Policy
ad Harward, ha detto a proposito: “Ci si è dimenticati di una realtà
che riguarda i soldati americani: hanno tutti macchine fotografiche
digitali e accesso a Internet. La guerra al terrorismo è una guerra
mediatica. I terroristi che hanno decapitato il reporter del Wall
Street Journal Daniel Pearl in Pakistan e quelli responsabili di
decapitazioni di professionisti che hanno lavorato in Irak hanno
mostrato di avere una visione più acuta del potere delle immagini
digitali rispetto ai loro avversari americani”. I terroristi hanno studiato comunicazione nelle migliori università
del mondo? E’, ovviamente, un pensiero provocatorio. Certo sono capaci
di far giungere i loro proclami ovunque vi siano delle televisioni e
dei giornali. E dunque, pur essendo privi di mezzi e di reti
televisive, hanno trovato il modo di farsi conoscere, lo diciamo con
una certa amarezza. La televisione introduce queste realtà nelle case senza il tempo a
volte per le riflessioni, i giornali rincorrono la tv con foto sempre
più “reali” e vicine, straordinariamente vicine al reale nel suo
svolgersi. Foto e giornali sono alla portata di tutti nelle edicole e
gratis, grazie alla free press distribuita nei metro e nelle stazioni.
E per chi è povero, ci sono sempre i giornali gettati nei bidoni della
spazzatura. Le immagini della cronaca inseguono il cittadino dal
mattino alla sera, da quando va a dormire a quando si alza. E’ quasi
impossibile dire oggi: “Quel fatto non l’ ho visto”. In più va aggiunto che alcune di quelle immagini sono sovente le
stesse in tutti i media del mondo. La realtà viene rappresentata
sempre più spesso con le stesse fotografie e queste immagini
“raccontano” i fatti al mondo intero, offrendo al globo un'unica
visuale, una sola angolatura e, dunque, un unico pensiero. Il cormorano morente per l’inquinamento da petrolio del mare del
Nord e la morte di Giuliani durante il G8, solo due esempi fissati dai
media, pur distanti tra loro quanto a significato e a verità contenuta.
Le immagini decidono la globalizzazione delle nostre letture, dunque
degli avvenimenti. E persino dei nostri sentimenti. Il mondo si
globalizza attraverso le immagini. Avremmo potuto immaginare o sapere
quanto accadeva dentro Abu Grahib? Certamente, ma vedere le sevizie in
una fotografia è stato altra cosa. Abbiamo riletto, dunque, i saggi della Sontag. E insieme abbiamo
pensato di rivedere una parte di ciò che i quotidiani hanno pubblicato
sugli avvenimenti di prima pagina nell’ultimo anno. Una carrellata
sommaria che certo dimenticherà qualche immagine importante e ce ne
scusiamo, ma che non altera la riflessione. Tra le foto più dure e recenti certo vi sono quelle legate al video
della giornalista del Manifesto, Giuliana Sgrena, l’ennesimo video che
ci propone la minaccia di morte in diretta e la paura e l’ impotenza ad
esso connessa. Le foto dei corpi ammassati sulle baie dello Sri Lanka, corpi di
gente uccisa dalla furia delle onde. Pezzi di esseri umani che ad un
occhio poco attento potevano sembrare solo rifiuti in una discarica. Abbiamo rivisto la testa mozzata dell’americano ucciso per mano dei
terroristi afgani, pubblicata dal quotidiano Il Foglio, un’immagine
vera ma in bilico tra fantasia e realtà, come fosse il dipinto di un 
decollato seicentesco del Caravaggio. Abbiamo rivisto le foto delle donne kamikaze cecene dell’ ottobre
2002, uccise dal gas paralizzante. Reclinate sui braccioli, a bocca
aperta, sembrava che la morte le avesse solo assopite. I cadaveri della strage di Madrid dell’11 marzo e il volto
pietrificato della giovane uccisa nell’attentato ai convogli dei
pendolari; si chiamava Isabel e aveva 32 anni e con la morte si è
conquistata una macabra notorietà. Abbiamo visto alcune, tra le tante foto, pubblicate dall’Herald
Tribune sugli attentati in Israele. In una delle foto meno cruente,
almeno nei suoi contenuti apparenti, si vede un gruppo di ebrei che in
una strada di Gaza raccoglie il sangue di un attentato, chino
sull’asfalto, la stella di Davide sul dorso e la papalina sulla testa.
Sembrava pulire un pavimento macchiato nello svolgersi della
quotidianità, era invece sangue delle vittime che un palestinese aveva
provocato, dirigendo il suo autobus su una folla. Ma gli attentati si possono anche rappresentare in altro modo. Una
scelta fotografica inusuale l’ha fatto il quotidiano inglese The
Guardian, mettendo in prima pagina la mano ingigantita di una vittima
di uno degli attentati fatti a Gaza, bianca per la morte, con un
cartellino al polso e un numero di identificazione. Il quotidiano
inglese aveva deciso di raccontare l’orrore ingigantendo un particolare
del cadavere e dunque della morte, solo la mano di quella donna con le
unghie dipinte; in un dettaglio era riassunta l’assurdità e la pietà
per quella morte. Abbiamo rivisto le vittime dell’11 settembre fotografate mentre
precipitavano nel vuoto, perché si erano gettate da una delle Torri.
Così abbiamo rivisto la sequenza delle foto della morte del piccolo
Mohammed al-Durra, 12 anni, in quel di Gaza, ripreso mentre cercava di
proteggersi dai colpi dei cecchini, in un angolo di muro, con il padre
accanto, poi sopravissuto. Con questa immagine chiudiamo, lasciandone mille altre indietro, ma
certo a molti giornalisti torneranno alla mente e aiuteranno a
comprendere le riflessioni della Sontag. “Le fotografie non possono creare una posizione morale, ma possono
rafforzarla”, scriveva la Sontag nel suo saggio “Sulla Fotografia 
Realtà e immagine nella nostra società” del 1973. “Le fotografie possono essere ricordate più velocemente delle
immagini in movimento…La televisione è un susseguirsi ininterrotto di
immagini, ognuna delle quali cancella quella che la precede…Immagini
come quella che nel 1972 comparve sulle prime pagine di quasi tutti i
quotidiani del mondo – il bambino sud vietnamita che, irrorato dal
napalm americano, correva su una strada verso l’obiettivo, a braccia
aperte e urlando di dolore – contribuì probabilmente ad accrescere
l’avversione dell’opinione pubblica alla guerra, più di cento ore di
atrocità viste alla televisione”. Ma quarant’anni dopo, l’affollamento delle foto fa sì che i media si
trovino costretti a pubblicare immagini di cui non possono controllare
la provenienza, cioè la fonte. I decollati in Irak e la loro prigionia
calvario, la grande gabbia allestita per Kenneth Bigley prima che fosse
ucciso. Cosa c’era di più falsamente orchestrato per i media di quella
sua catena al collo e della sua figura rattrappita nella gabbia troppo
grande? La Sontag nel 1973 aveva una visione critica sulla pubblicazione
delle foto di guerra: “Una cosa è soffrire, un’altra vivere con le
emozioni fotografate della sofferenza, che non rafforzano
necessariamente la coscienza o la capacità di avere compassione”. In
sintesi le immagini paralizzano, le immagini anestetizzano. Quando si è
ripetutamente esposti alle immagini, esse diventano meno reali. Anzi,
le fotografie rappresentano una forma di consumismo estetico al quale
tutti sono dediti. La conclusione era socratica. Oggi tutto esiste per
finire in una fotografia. I giornalisti di oggi, possiamo aggiungere, sanno benissimo quanto
questo pensiero sia sommamente vero. Non esiste più nulla che non sia
fotografabile, giornalisticamente parlando. E, se non lo fosse, la
mannaia del disinteresse cadrebbe su quel fatto o quella cosa, per
quanto importanti ed eccezionali. Potremmo dire con la Sontag che:
“…avere una fotografia di Shakespeare sarebbe come avere un chiodo
della Vera Croce”. Dissacrante? No, oggi accade esattamente questo. La
foto è la notizia. Come metafora è priva di sbavature, anzi rasenta
l’ironia di quello stato di cose che nelle redazioni si chiama
ossessione delle immagini, imperio dunque delle foto. Eppure il contenuto etico delle fotografie è fragile, non sempre
certo, anzi quasi mai. La fotografia ha una molteplicità di
significati. La morte, l’orrore, a loro volta, sono argomenti eterni,
legati al mito, temi insomma che ci appartengono e che attraggono oltre
misura qualunque essere umano. Anche i lettori e i telespettatori,
dunque. Susan Sontag nell’ultimo libro “Davanti al dolore degli altri”,
mentre si avvicinava alla fine della sua vita, cambia radicalmente
opinione. Tra i due libri corre una distanza di oltre trent’anni. E
conclude con una visione molto diversa da quella del ’73. “Lasciamoci
ossessionare dalle immagini più atroci”, esorta nel capitolo ottavo del
libro, il penultimo. Perché mai? “Quelle immagini dicono: ecco ciò che
gli esseri umani sono capaci di fare, ciò che – entusiasti e convinti
d’essere nel giusto - possono prestarsi a fare. Non dimentichiamolo”. Due i punti interessanti delle sue conclusioni. Il primo. Ma il
ricordare è sempre un atto etico? Il filo del discorso della Sontag
corre lungo binari filosofici: “Fare pace significa dimenticare”. Per
riconciliarsi bisogna che la memoria sia difettosa. Il secondo. Il
fatto che le notizie di guerra siano diffuse, non significa che sia
cresciuta anche la capacità di riflettere della gente lontana. E’
comprensibile che le persone ad un certo punto voltino le spalle ad
immagini che le fanno sentire male. Non è un difetto non essere
devastati e non soffrire quando vediamo tali immagini. Ma le foto sono pur sempre un invito a riflettere, ad analizzare le
ragioni con delle domande: “Chi ha provocato ciò che l’immagine mostra?
Chi ne è responsabile? E’ un atto scusabile? Si sarebbe potuto
evitare…?”. La vista sarebbe secondo i filosofi dell’antica Grecia il più nobile
tra i sensi. Dunque guardare è bello, facile, si può interrompere
quando si vuole, che sia da lontano o che sia da vicino. Guardare resta
sempre e solo guardare, conclude Susan Sontag. Alcune foto sono state in effetti un memento mori, oggetti di
contemplazione che hanno permesso di rendere più profondo il senso
della realtà. Icone laiche del reale. Per le quali – dice la Sontag - 
sarebbe utile avere uno spazio laico di riflessione. Ma come leggiamo
nel capitolo nono, l’ultimo: “…è difficile imbattersi in uno spazio
consacrato alla serietà nella società moderna, il cui principale
modello di spazio pubblico è rappresentato dal centro commerciale”. Le
emozioni nelle foto poi sono fugaci e il peso e la serietà delle foto
cedono il passo. Tutta la barbarie che si vedrà, dunque, nelle foto
diventerà alla fine solo la barbarie degli uomini in quanto tali e le
intenzioni del fotografi risulteranno irrilevanti. Che le foto dell’orrore invadano pure i media e le città. Se questa è la vita degli esseri umani. Grazie, Susan Sontag, per avere ampliato l’orizzonte legato alla
riflessione sulle immagini e a non averlo isolato solo a posizioni
rigide di pro e contro la pubblicazione, in modo da poter accogliere le
mille possibilità che le foto offrono oggi ai cittadini che vogliono
sapere. Ma forse, vorremmo aggiungere, che la questione tocca anche il come
si può pubblicare e come si può guardare. Pensando all’arte antica,
alla sua forza di rappresentazione, ai quadri sulle morti, le
uccisioni, i decollamenti, le rappresentazioni più atroci dei martiri
cristiani, v’era nei quadri una compassione, una compartecipazione al
dolore, creata dall’artista, con la scelta dei volti, degli sguardi e
dei colori, persino dei tessuti. Non v’era, dunque, solo la
rappresentazione dell’orrore. Se il nostro guardare foto è in qualche modo un sostituto dell’arte
antica, come del resto dice anche la Sontag nel suo libro del ’73,
perché non chiederci se nel fare foto e poi nel pubblicarle si tiene
ancora conto che si ha a che fare con il dolore degli esseri umani? Che
di fronte al dolore matura una sorta di rispetto legato appunto alla
pietà, un sentire antico come l’uomo. La foto può essere esonerata da questo sentimento con una visione
assolutamente laica? Sarei per un passo in più sulla riflessione, un
passo che va verso quell’umanesimo che non è ancora defunto sotto le
ceneri del commerciale. Guardare è anche dare la vita. Attraverso il
vedere noi decretiamo l’esistenza e non la morte. Se conserviamo la
pietà e la coralità del sentire che è il dolore. Ma è possibile, nel contesto odierno, per fotografi, giornalisti e
cittadini conservare viva la pietà di fronte alla rappresentazione
fotografica del dolore o della morte? Noi crediamo di sì, perché è un
must, cioè un dovere morale a cui non possiamo rinunciare. Paola Pastacaldi §§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§§ Le immagini di Gheddafi e la pietas occidentale. La morale della Libia arcaica fatta di cabile e tribù. L‘Africa resta il paese delle Erinni. “Alcuni giornali e radio hanno commentato la fine di Gheddafi parlando, ai margini, di immagini disumane, di corpo oltraggiato, di barbarie della vendetta. In breve, alludevano alla pietas. Ma questa è la nostra pietas, non è affatto quella dei popoli africani! Trovo questa visione dei fatti falsamente moralistica. O, meglio, trovo questi commenti velati di una mentalità che conserva ancora caratteri retrivi di colonialismo culturale”. di Paola Pastacaldi - giornalista e scrittrice



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