'Il sangue della Passiflora' di Andreina Sirena
Inverno
C’erano due strade per tornare a casa: quella reboante segnata da migliaia di passaggi e l’altra assorta in una penombra inabitata. In fondo a quest’ultima si aprivano i giardini pubblici.
Era un pomeriggio ventoso. All’ingresso della cancellata il tasso si agitava e si gonfiava.
Armida attraversò il sentiero dei tigli spogli la cui corteccia si era arricchita di un mantello di licheni. La polvere si sollevava dalla ghiaia mescolandosi alle foglie, gli aghi argentati del cedro atlantico ondeggiavano ubriachi. Il giardino aveva qualcosa di febbrile quand’era annegato nel vento. Alcuni alberi sprigionavano una forza nuova nei movimenti delle chiome. Il cielo era terso ma il freddo pungeva. Chissà quante note che non era in grado di cogliere si stavano sparpagliando nell’aria. Le sembrava di avvertire la modulazione di un canto dall’alto delle fronde e un fischio mal accordato dal frusciare del fogliame, quasi il soffio fragile di un ottavino. Uno strano affanno s’insidiò in gola. Si sentì cogliere da un lieve capogiro. Era come se il vento la spingesse in avanti.
Sollevò l’ampio cappuccio della giacca portandolo alla fronte, strinse l’imbottitura sulle orecchie e con le mani affondate nelle tasche s’incamminò verso la quercia rossa che non aveva più nulla da agitare in quell’orizzonte che imbruniva. La strada, andando avanti, slargava in un piazzale con un carosello e si andava man mano restringendo, fino a un laghetto artificiale sormontato da putti, a ridosso di un percorso che nelle giornate calde si affollava di podisti. Da lontano udì il suono del picchio che scalpellava il legno, intervallato dal suo verso squillante.
La quercia rossa era situata accanto a un cedro dell’Himalaya. Era l’albero più anziano del parco. Aveva perso la sua bella chioma da tempo e le sue branche apparivano come enormi dita mutilate.
La vistosa lacerazione alla radice - come se il colpo di una scure spietata avesse tentato di abbatterla - lasciava intravedere un tronco vuoto che non avrebbe potuto sostenere a lungo il peso di quelle enormi branche. La sua stagione di fiori e ghiande era terminata. Nella senescenza non c’era più distinzione tra gli inverni e le primavere. Armida amava sostarle di fronte,
tenerle compagnia in cambio di un riflesso della propria solitudine. Sentiva il respiro placarsi, i pensieri impazienti farsi silenziosi.
Al di là della recinzione che la custodiva, si intravedevano i fiori chiusi della magnolia soulangeana che di lì a poco sarebbero esplosi in un viola sinfonico. In mezzo a quegli arbusti che speravano la primavera, la quercia restava come un monumento funebre. Eppure, dietro quella corteccia marcescente pullulava ancora la vita. Tra le fessure scollate si annidavano i coleotteri dalle antenne nodose, lungo l’umido dei rami le larve carnose scavavano segrete gallerie e sciami di formiche ne percorrevano le screpolature in cerca di melata. Più diventava vulnerabile, più si faceva nutrimento per altre vite.
Era lì da oltre duecento anni. Sopravvissuta a tante epoche, aveva assorbito ferma in quel luogo i brusii delle viscere, i freddi della merla, le afe estive. Aveva ascoltato i ragionamenti degli intellettuali e le sfumature dei poeti, aveva assorbito le promesse di chi si amava e le maledizioni di chi era stato abbandonato. I venti leggeri, le grandini violente. I cieli di stelle e quelli di cipria. Li conteneva tutti. Nel suo silenzio statico.
Adesso custodiva anche il suo abbandono e la sua attesa.
II
Tre anni e sei mesi prima. Autunno
Salì in fretta lo scalone d’onore. Un gruppo numeroso di visitatori l’attendeva nella grande anticamera. Sfilò furtivamente dalla borsa gli occhiali e radunò il gruppo davanti alla soglia della sala degli arazzi. Lanciò un’occhiata alle persone che aveva di fronte. Due donne parlavano e si scambiavano sorrisi. Le gelò con un’espressione severa. Una abbassò la testa come a sentirsi in colpa. L’altra intrecciò le mani ritrovando una posizione compita.
Indugiò ancora prima di iniziare. Un uomo di spalle stava attendendo in biglietteria. Forse era un ritardatario che doveva aggregarsi a loro. Fece un lungo respiro in cui raccolse la concentrazione e cominciò.
“Una mostra sui mondi perduti. Cosa intendiamo? Sono dimensioni lontane, ispirate all’antichità, alla letteratura, alle leggende medievali. Gli artisti coniugano la verosimiglianza degli episodi alla fantasia più audace. Il loro obiettivo è raggiungere un ideale assoluto di bellezza. L’autenticità dei dettagli e l’esattezza delle espressioni consegnano a questi mondi incantati l’illusione di una realtà tangibile e autentica.”
Fece una pausa e scrutò gli occhi della donna che aveva richiamato con lo sguardo. Dall’angolo dell’anticamera, vicino al finestrone, l’usciere le sorrise. Armida lo ignorò e proseguì con tono più enfatico.
“Stiamo per addentrarci in un mondo d’ispirazione classica, lussureggiante per forme e per colori. A una sontuosità traboccante fa da contraltare una sensualità intima e innocente. L’universo femminile, il valore dei sentimenti e delle passioni sono il fulcro della ricerca artistica del movimento che nasce in un’epoca materialista e sceglie di rivolgersi al passato come critica nei confronti della modernità.”
Dinanzi alla terza tela, in attesa che tutto il gruppo si ricompattasse, si accorse che l’uomo che si era attardato in biglietteria era rimasto nella stanza precedente, assorto davanti alla Ninfa del Fiume. Era un olio che rappresentava una giovane intenta a nascondere il seno, coperta da un velo diafano che sembrava generato dalla cascata alle sue spalle. Forse fu quel silenzio improvviso sceso nella stanza a farlo voltare di scatto nella sua direzione. Dalla sua posizione Armida gli fece cenno col capo per invitarlo a raggiungerli.
Era di un pallore indefinibile. Il suo volto appariva di un bianco traslucido, compatto, come una statua di marmo pario. I suoi lineamenti erano freddi e levigati, gli occhi come lo scrosciare di un uragano. Si sforzò di mantenere un contegno, esitando prima di riprendere a parlare. Era una presenza estatica e inquietante. Cercò di recuperare la concentrazione osservando il dipinto alle sue spalle. Chiuse gli occhi un istante, immedesimandosi nei dettagli della tela che doveva analizzare e riprese in modo più deciso.
“Osserviamo adesso questo sontuoso banchetto all’aperto, incorniciato da colonne di porfido rosso e di marmo verde di Laconia.” La voce si era arrochita. Sentì quegli occhi insistenti addosso. Deglutì e proseguì. “In primo piano ci sono dei cortigiani riversati sui triclini che indossano corone di fiori. Possiamo riconoscerne le varietà: violette, mughetti, garofani, calendule. Notiamo i cuscini di cuoio bianco, le incrostazioni di madreperla su questa estremità,” disse indicandola con l’indice. “Alla sinistra c’è una suonatrice di aulos coi capelli dorati al vento. Con la coda dell’occhio sta osservando il telo bianco aprirsi e una pioggia di petali di rosa scivolare sugli invitati.”
L’uomo misterioso la scrutava in ogni dettaglio. Non sembrava interessato al dipinto ma a lei, ai suoi gesti, alla modulazione della sua voce. Sembrava compiaciuto da quella spiegazione. Per un istante Armida ricambiò il suo sguardo; fece una pausa che durò il tempo di un sospiro e andò avanti. “Tutto farebbe pensare a un banchetto gioioso e all’apparenza gli invitati sembrano trovarsi a proprio agio. In verità le persone in primo piano stanno soffocando. Questo bagno di rose dall’alto le sta uccidendo.”
Fece una pausa più lunga osservando la reazione dei visitatori. Fissò un angolo della parete vuota di fronte. Respirò e proseguì, con un tono più suadente, soffermandosi sul contrasto tra la bellezza decorativa e la crudeltà rappresentata. Invitò il gruppo a seguirla nella stanza successiva, evitando di incrociare nuovamente quel volto ossessivo.
Si immerse completamente in quegli scenari onirici e mitologici, trasportando i visitatori verso spiagge di alghe e conchiglie, deboli mormorii di brezze, chiome di caprifogli e labbra di melograno. Il tempo sembrava dilatarsi, le tele moltiplicarsi. Ma la seduzione dell’arte non bastava. Pergolati di rose ed espressioni malinconiche, chiome rosse su specchi d’acqua, figure tra gli alberi. Sentiva quella presenza diventare sempre più ingombrante e irresistibile. Una forza magnetica fuori controllo. Tentò di evitarlo in tutti i modi, ma non riusciva a resistergli. Si voltava per cercarlo come se non potesse più fare a meno di bere dai suoi occhi, di nutrirsi delle sfumature marmoree del suo volto.
Via via che la collezione di dipinti scorreva, l’uomo misterioso si avvicinava sempre di più, fino a sovrastarla sulla tela finale, quando se lo trovò così prossimo alla bocca da aver timore di proferire una parola. Era esausta. Le sembrò di aver attraversato centinaia di stanze. Fece una pausa, si voltò per dare un’occhiata all’ultima tela: raffigurava un’eroina tragica, ferita dall’amore fino alla follia. Avvertì una sinistra corrispondenza con l’espressione del suo viso. Rimase inchiodata a guardarla e iniziò a parlare volgendo le spalle ai visitatori.
“Quella che vedete è una fanciulla che scopre la violenza dell’amore. Abbandonata dal suo cavaliere, ne conserva lo scudo nella propria stanza, destandosi all’alba sui bagliori del metallo baciato dal sole. Osserviamo il suo sguardo. Ha gli occhi invasati, fissi sullo scudo. Il gesto convulso delle sue mani evoca impazienza e disperazione. Il suo è un amore impossibile.”
Terminata la visita si ritrovò quell’uomo davanti alla sala del trono. Se ne stava immobile come una statua. Dietro di lui lo squarcio della volta a maglie lo avvolgeva come dentro una nicchia. Si guardarono. Oltre che tenerci in vita, la bellezza ha anche il potere di confondere, di farci crollare.
Non poteva più aggrapparsi a nessuna distrazione. Non poteva più ignorarlo. Era lì per lei. Non c’era nessun dubbio. La stava aspettando. Si sforzò di reggere quello sguardo in una tensione mentale che la faceva vacillare. Lo vide avanzare verso di lei col passo sicuro. Si fermò di colpo come impietrito.
“Posso disturbarla?”
“Prego.” rispose col cuore quasi fermo per l’emozione.
“Voglio complimentarmi per come ha condotto questa visita. Ha un modo di parlare molto evocativo. La sua passione è contagiosa, mi ha trasportato in un altro luogo e le sono grato per questo.”
La voce era intensa e straordinariamente profonda.
“Se ha qualche minuto a disposizione, che ne dice di sederci e consumare qualcosa?” Accettò senza esitazione come se non avesse desiderato altro che quell’invito. In quei pochi minuti trascorsi con lui al caffè del museo le parve di cogliere un frammento d’eternità nella febbre dell’esistenza.
“Mi trovo in città per l’allestimento di un’opera lirica.” “Quale opera?”
“Il Fidelio.”
“Il Fidelio? E che ruolo ha?”
“Diamoci del tu. Sono un tenore.”
“E non dirmi che vestirai i panni di Florestan?” chiese Armida incredula. “Florestan in persona. Conosci l’opera?”
Armida annuì. “Amo Beethoven. Ho perfino un suo busto sul pianoforte.” “Suoni il piano?”
“Tempo fa, poi ho smesso.”
“Allora posso considerarti una musicista.”
“No,” rispose scuotendo il capo. “No, non lo sono. Adesso sono solo un’ascoltatrice.”
“In che senso?” domandò incuriosito.
“Ho l’abitudine di ascoltare la musica classica al risveglio e prima di addormentarmi,” Lo guardò con gli occhi malinconici e aggiunse: “C’è stato un periodo in cui mi addormentavo sul duetto finale di Leonore e Florestan, non è strano?”
L’uomo la guardò intensamente con gli occhi inquisitori, come a cogliere una vulnerabilità da quella dichiarazione. Armida avvertì un disagio. Abbassò il mento e si guardò le mani. Le balenò il pensiero di essersi lasciata andare a una confessione troppo intima.
“Sì, è davvero strano,” commentò. “Non è un’opera che porta ad abbandonarsi, o forse lo è solo per lo spettatore. Per chi è in scena la tensione di quel momento sembra non demordere mai.”
Armida lo ascoltava inebriata. La sua voce era grave e vibrante come un flusso misterioso. Era difficile mascherare l’eccitazione di sedergli accanto e di parlargli. Si sentiva pervasa da un’euforia nuova, paragonabile solo all’estasi che l’avvolgeva di fronte a certi soggetti sacri, immortalati nei trittici o nelle pale d’altare.
“Essere salvati dal coraggio di una donna ridesta dentro ogni tipo di emozione. Si passa dal terrore e dalla rassegnazione al trionfo dell’amore e della fedeltà,” aggiunse. “Sono cose che scuotono, di certo non conciliano il sonno.”
Armida colse un dissenso verso quello che gli aveva confessato.
“Nel Fidelio l’amore non è un sentimento,” proseguì con determinazione. “È un impegno, una responsabilità, un rischio. Il duetto finale che hai citato è l’esito di un percorso tortuoso, di una sfida alla morte.”
Il suo sguardo per un attimo sembrò rimproverarla. Le ciglia erano aggrottate come all’affiorare di un ricordo inquieto. Armida lo vide ritrarsi in sé, adagiare la fronte sul palmo della mano. Era un’immagine scultorea. Notò riflessi bronzei sui suoi capelli scuri.
“Scusami, non voglio tediarti.” aggiunse pensieroso.
“No, niente affatto. Mi piacerebbe molto assistere all’opera.”
“Senz’altro. Finite le prove inizieremo un lungo viaggio a tappe in diversi paesi, ma prima o poi tornerò in città e sarai la prima ad essere invitata, così potrò ricambiare le belle emozioni di oggi.”
Armida accennò un sorriso. L’uomo fece per alzarsi. “Mi chiamo Tommaso.”
“Io sono Armida.”
“Lo so: ti sei presentata al gruppo.”
Lo vide allontanarsi. Rimase impassibile, attratta e spaventata al contempo. Era completamente diverso da ogni uomo della folla, da ogni uomo che fino ad allora era entrato nel museo. Avrebbe fatto qualsiasi cosa per trascorrere altro tempo con lui. Lo seguì con lo sguardo fino a quando non scomparve, inghiottito dalle traiettorie dei passanti. Si sentì pervasa da una sensazione profonda e indefinibile. Aveva lo stomaco in subbuglio. Lo immaginava già nei panni di Florestan: il prigioniero condannato a morte nel Fidelio. Riudì il tessuto musicale lacerato da pause improvvise, l’accompagnamento isterico dell’oboe nel delirio della liberazione. Le aveva parlato di amore come impegno e della fedeltà come un valore. Era un’apparizione sconvolgente.
‘Tommaso, Tommaso, Tommaso…’ ripeté sottovoce, come a incorporarlo. Ripercorse a ritroso le stanze del museo, in un silenzio nuovo.
Si fermò a indugiare ancora sul dipinto del banchetto. Come una sonnambula si smarrì nella valanga di petali che travolgeva i commensali. Avvertì un lieve turbamento. Pensò al significato ambiguo delle rose, al lato oscuro della bellezza, alla crudeltà che poteva celare.
SINOSSI
Sono trascorsi tre anni e sei mesi dalla partenza di Tommaso - un celebre tenore impegnato in una lunga tournée del Fidelio - e Armida non ha più avuto sue notizie. L’attesa disillusa e la malinconia crescente segnano le sue giornate, dove l’unico conforto sembra provenire dal museo in cui lavora come guida e dal colloquio silenzioso con una vecchia quercia morente all’interno dei giardini pubblici della città. Attraverso salti temporali vengono svelati gli aspetti del rapporto violento e sensuale tra Armida e Tommaso, in cui la ragazza, pur struggendosi in una relazione sacrificale, si innamora di lui in modo ardente e tenace. Lo stato d’animo negativo di Armida si stempera in estate, col ritorno nella sua terra d’origine e nell’incontro con Lorenzo, giovane e appassionato apicoltore, che ha abbandonato la capitale per vivere in un piccolo borgo in mezzo alla natura. Affascinata dal suo stile di vita e dai suoi ideali, intreccia con lui una relazione che le trasmetterà una nuova voglia di vivere.
Ma il loro futuro è incerto e la storia si conclude con la fine dell’estate.
Disillusa e rassegnata Armida torna in città cercando conforto nei dipinti della nuova mostra allestita nel museo. Una sera, passeggiando nel parco, trova divelta e senza vita la quercia che aveva accolto le sue malinconie.
A risollevarle l’animo è la notizia del ritorno di Tommaso in città, ma una confessione inaspettata farà crollare definitivamente il sogno di un’amore felice e duraturo.
Nota biografica.
Andreina Sirena è docente di Lettere nella scuola secondaria di primo grado. Ha
vissuto dal 2004 al 2019 a Milano e ha insegnato nella scuola all’interno dell’Istituto dei Ciechi di
via Vivaio. E' una critica cinematografica; ha collaborato con i quotidiani Il Tempo, L’Avvenire,
con la rivista mensile Carte di Cinema, il mensile Volare, il mensile Poesia, col sito di cinema
www.mymovies.it . Scrive attualmente per la rivista specializzata Ragazzo Selvaggio. Ha
collaborato con il Centro Studi Cinematografici della Lombardia (CSC) e il Cinema Gnomo di
Milano..
Dal 2010 al 2019 ha gestito il Cineforum serale del Teatro Oscar di via Lattanzio a Milano,
presentando i film e curando i dibattiti con il pubblico.
Dal 2015 svolgae corsi di formazione e aggiornamento ai docenti e agli alunni sulle politiche
ambientali, sulla necessità di uno sviluppo equo e sostenibile e rispettoso dell’ecosistema.
Nel novembre 2022 ha partecipato ad un meeting presso l’Unicam di Ascoli Piceno con un
intervento dal titolo The changing school against climate change .
Ha conosciuto la Quercia di Montale durante le pause lavorative dall’Istituto dei Ciechi. Dal suo
rapporto personale con questo albero monumentale è nato un romanzo che uscirà a giugno con Ianieri
Edizioni, dal titolo Il sangue della passiflora.