Professionisti della Comunicazione (come gli influencers) nell'Ordine dei giornalisti e nell'Inpgi? Un commistione proibita dalla legge e dalla deontologia.

di Paola Pastacaldi giornalista e scrittrice

Professionisti della Comunicazione (come gli influencers)  nell'Ordine dei giornalisti e nell'Inpgi? Un commistione proibita dalla legge e dalla deontologia. La lunga battaglia dell'Ordine dei Giornalisti della Lombardia (soprattutto tra il 1989 e il 2007) in difesa della correttezza dell'informazione e  contro le intromissioni degli uffici marketing aziendali  nelle redazioni.

 

di Paola Pastacaldi

2.12.2017 - Leggendo la proposta dell’Inpgi su come abbattere la gravissima crisi dell’Istituto dove si propone l’apertura all’iscrizione dei professionisti della comunicazione in quanto il giornalismo non è più quello del 1963, ci si chiede che stia accadendo?

Sono stati forse dimenticati gli ultimi trent’anni di sofferta battaglia deontologica degli Ordini dei Giornalisti e dell’Ordine della Lombardia in primis, con il sostegno dei giudici milanesi, contro il mondo della pubblicità, del marketing e della comunicazione con cui le aziende, i produttori di servizi o altri usavano ogni mezzo - peraltro negli ultimi tempi riuscendoci - per imporre in modo mascherato e illegale la promozione di questi prodotti e servizi all’interno degli stessi articoli firmati dai giornalisti, e non negli spazi leciti e a loro preposti dalla legge. Sfruttando per obiettivi commerciali la credibilità degli articoli stessi.

Questa commistione è proibita dalla legge e dalla deontologia del giornalismo professionale. Le aziende, con i loro uffici preposti alla comunicazione, hanno agito in modo a volte illegale con pressioni molto forti sui giornalisti, capiredattori, costringendoli anche attraverso decisioni che venivano dall’alto, cioè da direttori e da editori sempre più indeboliti e spaventati dalla crisi. In parole povere gli uffici del marketing si sono negli anni avvicinati alle redazioni, talvolta persino sostituiti nel caso della moda, della bellezza e della salute, cercando di condizionare le scelte editoriali per far parlare bene e mettere in luce i loro prodotti. Nella storia del giornalismo era un onore per i direttori non parlare mai con gli uomini responsabili della pubblicità in quanto lavori con interessi opposti. Ognuno doveva occupare i suoi spazi e la legge è stata costruita perché i lettori non si confondessero: un conto è un articolo e un conto è la pubblicità ospitata sullo stesso giornale, ma a pagamento dove il fine commerciale è dichiarato e interessato. Questo il lettore deve saperlo e capirlo immediatamente.

La situazione già 15 anni fa era quasi insostenibile. Le mitiche marchette del singolo giornalista che incassava regali di varia entità erano state soppiantate da pressioni editoriali di spinta sistematica alla commistione, con azioni di mobbing o minacce di declassamento o licenziamento. E così la pubblicità imponeva citazioni di prodotti dentro gli articoli, le didascalie, i sommari. Come già accadeva in piccolo nella Venezia del 1700.

In una società che punta al globale in tutto, anche in tema di informazione e media, con Internet che sta invadendo ogni cellula della nostra vita sociale e lavorativa, dire che il giornalismo non è più lo stesso è una ovvietà, su cui tutti siamo d’accordo, ma perché improvvisamente i doveri e le regole deontologiche che hanno sempre nutrito il giornalismo e non solo quello italiano (anzi il nostro meno degli altri, come sostiene da almeno 20 anni Reporter sans Frontiere che ci accusa di essere il fanalino di coda mondiale dell’informare criticamente) vengono gettate nel cestino della carta straccia? E perché mai il cuore stesso dell’identità del lavoro, eminentemente critico del giornalista, viene a cadere e al suo posto ci mettiamo un accordo con chi ha sempre puntato negli ultimi anni alla pubblicità mascherata dentro le pagine delle informazioni, disintegrando l’identità e il ruolo dell’informare per approfittare di spazi con maggiori credibilità dei cartelloni o delle pagine pubblicitarie a pagamento? Pretendendo a volte di riscrivere gli articoli o di decidere gli impaginati? Venti anni fa eravamo già a questo soprattutto in settori come la moda, la salute, la bellezza, i viaggi e poi i “comunicatori” hanno invaso anche sezioni diciamo più alte e prestigiose. Gli avvisi disciplinari e le sentenze dell’Ordine dei Giornalisti della Lombardia (dal 1989 al 2007 soprattutto) ne sono una annosa e sofferta testimonianza.

Viene da chiedersi allora che senso ha il lavoro giornalistico se per risolvere una crisi si cancella il contenuto stesso del fare ed essere giornalisti? Verità e senso critico non contano più?  Un prodotto, qualunque esso sia, vuole per sua natura vendere e la libertà di critica per chi produce, ovviamente, passa in secondo piano. Libero mercato, libero commercio, libera promozione, il mio prodotto è meglio del tuo, ma sarà vero? Al consumatore l’ultima parola. Non funziona così per l’informazione. Si insegna anche nelle scuole, no? Ma vogliamo far diventare un articolo un prodotto? Vogliamo dare un prezzo anche agli articoli?

Dobbiamo cambiare completamente lavoro per salvare il giornalismo? La proposta di permettere agli esperti di comunicazione, cioè quelli che dipendono dal marketing e dalla pubblicità, di essere iscritti negli Albi del'Ordine e nello stesso ente di previdenza, l’INPGI, significa accettare una condivisione di intenti che non ci può essere per legge, e che ci ha visti su fronti contrapposti, durissimamente. Nulla da eccepire sulla pubblicità chiara e distinta e pagata, come prevede il mercato e l'articolo 44 del Cnlg Fnsi/Fieg.

Come dire la proposta è di mettere insieme chi non ha per principio la verità sostanziale e critica, e chi invece è tenuto a farlo per legge, chi punta ai consumatori e chi ai lettori?  E’ un passaggio pesante che merita molta riflessione e consapevolezza. Perché? Ma potrebbe corrispondere alla fine di questa professione, non solo al cambiamento come tutti ci auspichiamo, vista la velocità di Internet.

Ho ritenuto utile ripercorrere parte delle battaglie condotte dall’Ordine dei Giornalisti della Lombardia nel corso degli ultimi decenni, per rivedere il sistema del fare le notizie alla luce delle leggi deontologiche e delle sentenze del Tribunale e della Corte di Appello di Milano intervenuti in molti casi. Il giornalismo visto come un diritto dovere del giornalista nel rispetto dei lettori.

L’apporto dell’Ordine dei Giornalisti di Milano al dibattito su diritti e doveri del giornalista in anni di marketing esasperato (non occorre citare la globalizzazione per capire che cosa è accaduto nelle redazioni degli ultimi trent’anni) è stato sottolineato spesso dalla Quarta sezione civile del Tribunale di Milano. Il tema era i falsi articoli, i cosiddetti “redazionali” apparentemente di carattere informativo, ma poi contenenti pubblicità mascherata quindi contaminati da esigenze diverse da quelle informative. I lettori vengono ingannati da messaggi pubblicitari spacciati in modo truffaldino per articoli. Questo comportamento è stato considerato un tradimento della professione giornalistica.

I direttori devono  evitare la commistione, come si dice in gergo, tra informazione e pubblicità in base alla legge e al contratto di lavoro collettivo. Il direttore ha l’obbligo della correttezza e della qualità dell’informazione, in caso contrario, quando avallano copertine o articoli pubblicitari, incorre in un illecito disciplinare.

Non è inutile ripetere che gli strateghi del marketing ritengono il messaggio pubblicitario più incisivo e penetrante se presentato da un giornalista in un articolo o in una trasmissione televisiva. C’è una strategia precisa, ha più volte ribadito il Consiglio dell’Ordine dei Giornalisti della Lombardia, secondo cui la pubblicità deve presentarsi come informazione, cioè con il volto e la firma del giornalista. La nuova frontiera della pubblicità mette in discussione l’autonomia professionale del giornalista.

Il consiglio dell’Ordine dei Giornalisti della Lombardia ha fornito un forte contributo alla costruzione della giurisprudenza in tema. Se la libertà d’informazione e di critica sono insopprimibili, il venire meno ad essa sigifica venir meno anche alle norme sancite a tutela dei consumatori e dei lettori e al principio che “la pubblicità deve essere palese, veritiera e corretta”.

Per essere ancora più precisi il messaggio pubblicitario sviluppa una sorta di difesa naturale da parte del lettore che non è invece preparato a contrapporre la propria capacità critica ai segnali ricevuti da una fonte riconosciuta come neutrale, quale deve essere l’articolo giornalistico. La comunicazione pubblicitaria suggestiva e pervasiva è caratterizzata dalla assenza di neutralità che è invece il primo requisito dell’informazione obiettiva. Tanto vale questo principio che per il Tribunale di Milano il direttore è tenuto a rendere pubblico il proprio dissenso dall’ufficio del marketing. Gli articoli pubblicitari giustificano le dimissioni del giornalista, in quanto ledono la sua dignità professionale. La pubblicità ingannevole à slealtà del giornalista. Perché viola il principio di lealtà nell’informazione ed è in contrasto con la normativa sulla pubblicità ingannevole. “E’ particolarmente preoccupante per la stessa libertà e indipendenza dell’informazione tanto da essere vietata dalla normativa deontologica”, con questi principi il Tribunale di Milano ha spesso confermato le decisioni del Consiglio lombardo dei Giorna

 



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