AFRIKNOW. AFRICA'S REPORTS ON EXPO. Un sogno colonialista chiamato Eritrea, ma gli italiani “Brava gente” a distanza di 80 anni non sanno ancora nulla delle Leggi Razziali

di Paola Pastacaldi in Afriknow, 29 febbraio 2015

 

Mi trovo ormai da quasi un anno a girare per librerie, scuole medie, inferiori e superiori, università, spazi culturali, auditori, biblioteche, circoli ufficiali, Rotary, Lions, per parlare del mio romanzo “L’Africa non è nera” (Mursia, 2015, pag. 209, 17 euro), ambientato negli Trenta e Quaranta, in Eritrea, colonia primigenia già dal 1890. Un periodo quasi totalmente rimosso dalla memoria collettiva. Nessuna analisi critica è stata realizzata da allora, anzi questa storia non è mai stata inserita nemmeno nei libri di scuola. Eppure conterrebbe tanti spunti molti utili alla società odierna, che è ormai una società multirazziale. Il rapporto degli italiani con l’Africa è un rapporto spezzato e incompleto, sino a quando non recupererà la memoria a riguardo della sua storia coloniale.

Il tema del romanzo è, dunque, la storia degli italiani in Eritrea. Gli italiani, sono stati convinti per oltre ottant’anni di essere stati “Brava Gente”, cioè più buoni degli altri colonialisti. Gli italiani non sanno, invece, che Mussolini nel 1938 aveva varato delle leggi razziali così dure da creare un apartheid contro gli indigeni e contro i figli meticci nati da queste unioni. Gli italiani non sanno che la guerra d’Etiopia del 1935-1936 è stata fatta con l’iprite, un gas nervino usato anche sulla popolazione, non conoscono i numerosi eccidi perpetrati da Rodolfo Graziani in più occasioni in cui sono morti migliaia e migliaia di indigeni. Tanto ignorata la storia che di recente si è voluto costruire un mausoleo a Graziani, fingendo di ignorare che si tratta di un criminale di guerra.

Ho scritto questo romanzo perché sono la nipote di una donna oromo, la figlia di un meticcio italo etiope nato nel periodo precoloniale. Mio nonno paterno, un toscano di Livorno, a fine Ottocento andò in Etiopia ad Harar per fuggire al carcere a causa di un duello. Harar era allora la Roma dell’Africa, luogo di osservazione delle mosse dei ras e di Menelik. L’Europa sognava la conquista dell’Etiopia. Mio nonno rimase tutta la vita in quella città musulmana e lavorò sempre per il Governo italiano. Si unì ad una donna oromo, di origini somale. Ebbe sette figli meticci, che amò moltissimo, l’ultimo dei quali era mio padre. Mio nonno morì nel 1921 ed fu sepolto ad Harar.

Mio nonno materno di origini venete nel 1935, agli inizi della guerra d’Etiopia, andò ad Asmara per lavorare. Asmara era colonia italiana già dal 1890. Gli italiani sognavano un posto al sole e il Duce li illuse che l’Eritrea fosse una seconda patria, per cui, mancando qui in Italia il lavoro, a migliaia partirono per sfamarsi e fare fortuna nella colonia. Mio nonno non costruì strade come molti italiani, strade che servirono anche per invadere l’Etiopia, ma organizzò la conduzione dell’acqua della città di Asmara, prima con cavalli poi con autobotti e si arricchì. Ma nel 1941 arrivarono gli inglesi e il sogno coloniale finì. Migliaia di italiani furono fatti prigionieri e spediti nelle carceri del Sud Africa, del Kenia e in Australia; mio nonno, invece, fu più fortunato e fu trattenuto a causa del suo lavoro di distribuzione dell’acqua, ma non poté più tornare a casa nel Veneto.

Mia madre nel 1948, verso la fine dell’amministrazione inglese, che si concluderà nel 1951, decise di andare a trovare mio nonno in Asmara, dove si innamorò di mio padre, il meticcio figlio del toscano e della donna oromo, nato ad Harar nel 1919. Mia nonna oromo, alla morte di mio nonno, nel 1921, attraversò l’Etiopia per portare i suoi bambini ad Asmara, dove esisteva una delle poche scuole per meticci. Ricordo che, poco dopo, negli anni Trenta i meticci non avrebbero avuto diritto di essere né riconosciuti, né adottati, né di studiare. Non avevano diritto di esistere. Furono trattati come reietti non solo dagli italiani, ma anche dagli stessi eritrei; colpevoli di essere figli dell’occupante, erano chiamati bastardi, dqwala.

In Italia, dicono gli storici, un italiano su tre ha una memoria coloniale in casa, foto, lettere, diari, oggetti indigeni, ma ne sa poco, si confonde Etiopia con Eritrea, non si sa se questi nonni hanno fatto la guerra o hanno lavorato. Non sanno gli italiani spesso dove sia il Corno d’Africa. Dall’altro lato però ci sono italiani molto orgogliosi e pieni di nostalgia per quel periodo in quanto per due, tre generazioni hanno vissuto, lavorato e fatto famiglia proprio lì ad Asmara. Eritrea dunque come seconda patria, ma questo concetto è stato a sua volta completamente rimosso.

A casa mia si parlava poco di quel periodo, tutto era ammantato da una sorta di ricordo esotico senza contorni storici e da un silenzio che era in fondo quello di tutti gli italiani. Mio nonno era tornato a Treviso da Asmara negli anni Cinquanta in piena crisi economica e si era ammalato. Mio padre non aveva mai voluto venire a vivere in Italia. Sapevo poco di lui, anche la sua vita era ammantata dal mistero. Solo nel pieno della maturità sentii l’impulso di chiarire la storia che faceva da contorno alle mie origini, di recuperare le mie radici africane. E così cominciai a studiare.

Subito emersero le parti mancanti dei racconti di mia madre. Ho studiato a lungo consapevole di affrontare un periodo difficile per la memoria italiana, un periodo dove non era possibile fare errori, anche se la narrazione letteraria è libera da vincoli storici. Volevo contestualizzare in modo più preciso possibile, più intenso, vicino al reale cosa ha significato quel periodo per tanti italiani come mio nonno, ma anche se in forma minore per gli indigeni e i meticci nati dalle unioni con le donne eritree, spesso abbandonati. Molti amici storici o studiosi mi dicevano che la mia era fatica sprecata, perché gli italiani interessati a quel periodo storico erano tutti morti e i giovani non sapevano nulla. Ho continuato per una sorta di cocciutaggine. Uno studio poderoso e maniacale fatto di libri di testo storici, di fonti archivistiche nazionali di Stato, legate alle istituzioni come l’Isiao, l’Istituto italiano per l’Africa e l’Oriente, ho trovato tantissimo in varie Biblioteche non solo a Roma, a Milano, alla Braidense, al Risorgimento e a Fusignano dal professor Stella. Ma ho poi arricchito il tutto con una altrettanto approfondita ricerca sulla memorialistica. Gli italiani non ricordano, ma l’Italia è letteralmente coperta di memorie private che sono state anche stampate con auto pubblicazioni o piccoli editori.

Quando il mio romanzo “L’Africa non è nera” è uscito, però, è accaduto qualcosa. I miei lettori hanno cominciato a dirmi quasi ad una voce, tutti, anche se non si conoscevano, la stessa frase: “Non sapevo”. Questi lettori ammettevano con onestà e semplicità di non sapere; ho colto nel tono un certo dispiacere come se capissero che non essere stati a conoscenza di questo brandello della loro storia, per così tanti anni, li avesse privati di qualcosa.

Sostengo ormai da tempo alle presentazioni che questo libro racconta un passato lontano, ma che bisogna conoscere: noi, dico, siamo vissuti a fianco degli eritrei per oltre 50 anni. Loro erano i sudditi, sottoposti poi a leggi razziali, noi i cittadini. Gli eritrei poi sono finiti sotto gli etiopi e per loro è stato un periodo altrettanto amaro che quello razziale. Sono sempre gli eritrei che oggi attraversano il Mediterraneo e spesso vengono a morire a due passi dalle nostre coste. Dopo i siriani, si dice, siano i più numerosi. Ma l’Eritrea non è riconosciuta, questo la rende quasi invisibile. Come sono invisibili i volti degli eritrei che sfilano dentro la tv quando sbarcano dai barconi, perché hanno paura e non vogliono fare dichiarazioni.

Ma la memoria degli italiani si sta risvegliando. L’anno scorso a Milano ad un Festival è stato proiettato il documentario “Asmarina”, che faceva vedere la comunità etiope eritrea che vive da oltre 50 anni nella zona di corso Buenos Aires. Una comunità che si sente italiana. Per i milanesi una scoperta. Il Mudec, il Museo delle Culture, ha esposto le foto di questo documentario, penso come messaggio alla città. Un italo eritreo mi ha raccontato un aneddoto: nel 1963 fu rimpatriato come figlio di un italiano che non voleva riconoscerlo, gli fu dunque dato un foglio dove risultava figlio di NN. Nella nave dove imbarcarono molti italiani e alcuni meticci all’ora del pranzo tutti poterono sedersi alla stessa tavola per mangiare. Il meticcio non voleva credere ai suoi occhi e, strofinandoseli disperatamente contento, diceva al suo amico meticcio: “Peppino, vedi anche tu quello che vedo io? Mangiamo con gli italiani”. Eravamo nel 1963, le leggi razziali erano state abolite nel 1946, eppure i meticci italo eritrei non potevano avvicinare gli italiani, né camminare sullo stesso marciapiede. Una storia lunga che arriva sino ad oggi, per capirlo guardate in rete il video su You Tube di Vittorio Longhi, giornalista di Repubblica, dal titolo “Siamo figli vostri, italo-eritrei”.

Mi è accaduto un giorno di avere una conversazione con un ristoratore eritreo di Milano, di cui ho pubblicato nel mio sito e in Facebook un piccolo video amatoriale, dal titolo “Un eritreo a Milano: il volto dell’emigrazione”. Abramo, venuto in Italia nel 1973, mi parlò a lungo del colonialismo e delle guerre condotte dagli italiani in Etiopia ed Eritrea. Sapeva tutto, molto più di un italiano. Mi disse: “Per me la storia dell’Italia è la storia coloniale e gli italiani non la conoscono. Quando sono arrivato qui ero convinto di essere italiano, ma poi tutti mi dicevano “che cosa è l’Eritrea? Dove è?”.

Questa è la storia, ancora tutta da raccontare.

 



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