di Mario Ruffin, medico ospedaliero

Non sopportavo l’idiozia del razzismo, neppure ovviamente quello meno percepibile per i cosiddetti “mulatti”. Quello esisteva tra italiani. Eccome se esisteva! Ma io non ne percepii mai una consistenza e anzi direi neppure proprio l’esistenza. Anzi

 

Gentile Prof. Paola Pastacaldi,

ho letto il suo libro “L’Africa non è nera”, che non posso definire solamente bello.

Esso è lo struggente coinvolgente racconto di una figlia d’Africa affetta dall’unica malattia, che ha fatto male al portatore principalmente perché riferisce del male altrui, ed essa solo si allevia gridandone al mondo. E’ il “mal d’Africa”. Anche nei suoi accenti ho trovato conferma dell’amore profondo e inesausto per quei popoli, ancora non contaminati dalla decadenza antropologica della civiltà occidentale, per il dono che ci fecero, restituendoci una sopita nostalgia per la purezza primigenia del Genere Umano.

Questo cosiddetto mal d’Africa soffre solo del silenzio che lo circonda. E Lei l’ha superato raccontandolo, nel riserbo e nel pudore delicatamente nostalgico, che emerge chiaramente in molte parti del suo romanzo, della sofferenza di una donna che ha perso l’Eritrea. Non le nascondo che leggendo ho provato profonda emozione per la spontanea maestria poetica, con la quale l’ha espresso anche i miei stessi sentimenti, e che inesorabilmente traspare tra i vari pretesti con i quali voleva mascherarlo.

Conosco quel male! Esso mi è stato esacerbato dalla complicazione del rimorso di essere stato, sia pur bambino testimone silenzioso, “bianco” tra i “bianchi” razzisti e fascisti. Fortunatamente la mia famiglia, mia madre e mio padre, non lo erano per niente, come dimostrarono più tardi per la mia amicizia con Itbarek Ghebregsbiabiher, ma in quei primi tempi era imprudente esprimerlo ai figli.

Io, per fortuna, al ritorno all’Asmara ventenne nel 1950, come antifascista, intensamente antirazzista, ho cercato, di diffondere tra gli eritrei, e tra gli italiani idee di libertà, di rispetto e di amicizia. Ho provato emozionata ammirazione per quel meraviglioso Popolo che io definisco sempre “gentile ed eroico”. Aizzavo i “neri” a farsi rispettare anche economicamente, a pretendere gratitudine per la loro veneranda civiltà e per la loro, non dovuta ai padroni colonialisti, lealtà.

Non sopportavo l’idiozia del razzismo, neppure ovviamente quello meno percepibile per i cosiddetti “mulatti”.  Quello esisteva tra italiani. Eccome se esisteva! Ma io non ne percepii mai una consistenza e anzi direi neppure proprio l’esistenza. Anzi ero ammirato e affascinato per la bellezza di quelle donne e angosciato alla vista dei bambini “mulatti” ammucchiati per scaldarsi sui gradini della Cattedrale nel freddo della sera.

Lei ha vendicato nel mio cuore in piccola parte il mio risentimento per le ingiustizie da me vissute soprattutto nell’infanzia su quel Popolo gentile ed eroico e del tutto innocente alle barbare, e del tutto gratuite, punizioni dei razzisti. Purtroppo il romanzo ci conduce all’amara sconfitta, per i noti nuovi motivi storici, della nascente fratellanza tra noi e loro. Almeno c’è il Suo libro a ricordarci l’Eritrea!

Tengo sulla mia scrivania tutt’ora la fotografia della dolce “nera” Lettè Abeba, come tutti loro, donna di purissimo cuore che, a causa del mio comportamento antirazzista affettuoso e ugualitario, mi regalò un grandissimo indimenticabile affetto.

 Mi è sembrato leggendo che la bellissima protagonista del romanzo, dotata di fortunato “lussureggiamento genetico” dovuto alla sua lontana ascendenza al Popolo Galla, lasci intendere qualche sua malintesa passata sofferenza per questo suo vero grande vantaggio, quale ci viene oggi dimostrato dalla scienza. Ma forse questa è solo una mia impressione fallace.

 

Solo la tarda decolonizzazione creò tra Eritrei e Italiani simpatia e più tardi persino nostalgico amore. Gli ignavi italiani metropolitani d’oggi, mantenuti accuratamente nell’ignoranza di tutto dovrebbero leggere il suo libro e riflettere. Solo pochi libri hanno tentato di forare questo complice silenzio voluto dalle grandi potenze, tra di essi c’è il suo che è molto amabile, poiché essendo presentato come un “romanzo” non parrebbe un libro di storia, anche se invece proprio lo è. Come ebbe a scrivermi lo Storico Prof Barbero “come potremmo noi storici produrre se non ci fossero i testimoni come voi a scrivere?”.

 

Mario Ruffin, medico ex ospedaliero e 'balilla' all'Asmara dal 1940, tornò in Italia nel 1943, con le 'navi bianche' della Croce Rossa.  Diplomatosi al Liceo scientifico “L. daVinci” di Treviso, tornato nel 1950 in Eritreavdove ha studiato medicina all’Università di Asmara, poi a Padova (Cardiologia e Medicina Interna) e a Torino (Endocrinologia). Primario di medicina in numerosi Ospedali friulani (Tolmezzo e Latisana) e veneti (Auronzo del Cadore e Oderzo). Membro del Circolo Bertrand Russell di Treviso. Ha pubblicato la sua storia nel libro Il Duce si è fatto male (booksprint.it ).