Elegia alla quercia. Un testo poetico dedicato alla senescenza.

di Paola Pastacaldi

La quercia rossa di Montale vive nei giardini milanesi intitolati a Montanelli, in un ampio prato. Sola, ormai da oltre due secoli, come sul proscenio di un teatro, con il sole che la disegna sempre in controluce. E’ cresciuta attrice, paziente e immobile, ma non passiva, in quell’elegante polmone di verde antico del cuore di Brera. Una delle piante più vecchie della città. Vi sono altri alberi intorno a lei, ma piuttosto lontani e discosti. In autunno, appare come tinta di rosso; in fondo al vialetto le fanno da contrasto i gialli dei gingko, i verdi intensi dei platani e i rossi scuri delle piccole sequoie del laghetto. Una perfetta regìa settecentesca studiata dall’architetto Piermarini. Dotata di una chioma perfetta e di un tronco proporzionato a sorreggerla, lo stormire delle sue foglie lobate desta una forte attrazione, che spinge ad avvicinarsi per poterla contemplare più da vicino. Si vuol respirare la sua luce, catturare la sua voce quando il vento l’investe, sostare al riparo della sua ombra. Si dice che Eugenio Montale, premio Nobel per la Letteratura, conoscesse questa paziente quercia, sua compagna di riposo nelle pause del magistero poetico. Ora, questa nobile quercia è entrata in una fase che la porterà a scomparire, a dissolversi, divenendo parte del ciclo vitale del Parco. Non è malata, è soltanto vecchia. O “senescente”, come dicono i botanici, perché gli alberi non conoscono la morte come noi esseri umani la conosciamo. Certo, a vederla è difficile crederlo: il suo tronco soffre per una ampia ferita provocatale da vandali, e la marcescenza subdolamente lavora, scavando altre caverne, altre gallerie, divorando il legno già indebolito dai funghi. Così la quercia continua a cedere pezzi del suo corpo al terreno. Alcune importanti branche, le più belle, sono da tempo cadute, abbattute dal peso d’una nevicata, lasciandole una chioma deformata e incompleta. Fa male a vederla. Per questo vien da credere, maldestramente, sia arrivato il momento di abbatterla. Molti, per pietà, lo pensano. Ma la “quercia di Montale” non deve morire. Suo compito, come di tutto il mondo vegetale, è proseguire il ciclo vitale con sapienza e lentezza. Dopo averla vista molte volte in questa sua vecchiaia, osservandone con amarezza, a ogni visita, un ulteriore peggioramento, sono arrivata a percepirne il lungo vissuto. Insieme al decadimento, c’è un non so che di grande in lei, e di spirituale, legato alla durevole vita, alla lotta contro le intemperie, le malattie, il tempo. E gli uomini, va detto. Saggezza, energia, dolore, biologia, pura vita vegetale, sono anima e cuore e nutrimento del legno marcio e squarciato, delle branche monche indebolite, con residui di bellezza, guizzi di luce, ancora vivi nelle grosse e ancora maestose radici emergenti, dove il muschio vi spennella un verde brillante, non riproducibile. Posando lo sguardo su di essa e attendendo con pazienza si può notare un brulicare di vita sottile, minuscolo, fin dentro l’erosione del tempo, fin dentro le ferite aperte. E poi, le minuscole afidi sulle foglie, le coccinelle sui germogli, e la melata zuccherina, e le larve di coleotteri; persino uno Scarabeo Rinoceronte e un coleottero delle querce, raro e bellissimo, il Cerambix Cerdo, con le

sue lunghissime antenne. Ostinati funghi di varie dimensioni, la abitano. Intorno ad essa lievi farfalle e umili formichine in piena attività, e lucertole saettanti, pronte a nascondersi nell’accogliente tronco. Sui rami, baldanzosa e dondolante, una cinciallegra pettegola e gialla.  A terra, in un anfratto del tronco eroso, un piccolissimo e tenero pipistrello sembra addormentato. Guardiamo meglio: è rannicchiato per sempre. E’ questa, dunque, la biodiversità, mi sono detta: non era finita la sua vita. Ed era giunto il momento di realizzare un servizio fotografico, un centinaio di foto, durante l’inverno e poi ancora sotto il sole della primavera.  Come era malconcia, la povera quercia. Tuttavia, le immagini, fatte viaggiare via Internet, poi stampate e sparpagliate sulla mia scrivania, raccontavano qualcosa di nuovo, di diverso e, in qualche modo, di inaspettato. In quegli scatti non era impressa l’immagine di un essere debole – come ci si poteva aspettare, monco e storto per la fine imminente –, ma di un guerriero tutt’altro che vinto. I suoi rami, ancora resistenti all’usura, erano sostenuti da due soccorrevoli assi di metallo che l’aiutavano a restare in piedi. Sembravano le braccia robuste di un vecchio gladiatore, deciso a continuare la lotta per la sopravvivenza. Con vigoria, come un gigante diventato, sì lento e impacciato, ma le cui branche spezzate brandivano il metallo come un bastone per continuare sulla sua via, sino alla fine. Forse la quercia potrà vivere ancora tre, quattro anni. Chissà. Ma sarebbe bello lasciare che si sgretolasse lì dove è cresciuta, nutrendo il terreno. Regalando la sua vita al Parco, in quel processo biologico complesso e necessario alla vita di tutti gli esseri viventi che chiamano biodiversità. E’ una grande opportunità poter assistere allo svolgersi di questa eterna fine, che a tutti appartiene, senza accelerarne i tempi, senza abbatterla, quella vecchia quercia. Per poterne cogliere l’ultima, umilissima lezione su come si muore.



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