Cellulare in auto come ti amo. Il racconto di una dipendenza

di Paola Pastacaldi giornalista e scrittrice

 Salgo in auto di corsa e mi trascino dietro una serie di borse e borsette, tipo sporta o porta documenti, contenenti carte e oggetti vari dalle scarpe da risuolare, alla ferraglia tipo appendini da gettare al Cerd, servizio rifiuti speciali. Un po’ di questa roba cade dietro di me e alcuni fogli svolazzano in aria e finiscono a terra come foglie d’autunno senza che me ne accorga. Colpa dell’età? Una mia amica dice che fare troppe cose insieme dimenticandone al meno la metà per strada è proprio un regalo della senescenza.

Apro l’auto e mi siedo: mi sento arrivata. E’ quasi una conquista, perché sono riuscita ad abbandonare la casa, le cui braccia mi risucchiano ogni giorno. I pensionati hanno un rapporto malato e quasi materno con l’abitazione. Nessun padrone vi si nasconde per ordinarti che devi fare, ma il risultato è che diventiamo schiavi della casa e delle piccole faccende quotidiane. Mentre in casa tutto continua a girare e c’è sempre da mettere in ordine, senza che si riesca mai a finire.

In auto aspetto impaziente che il cancello elettrico si apra e parto. Schizzo tra le rive del fiume e la siepe e mi lascio dietro un borbottio di acciottolato bianco.

Sospiro, sollevata. Accendo la radio, mentre svolto l’angolo e sono sulla strada abbandonando il fiume, la mia area protetta di campagna. Affronto un rettilineo provinciale dove tutti corrono come matti. Nessuno vuole aspettare. Ma ora sono quasi tranquilla. Pochi secondi di pace e subito mi sento di nuovo impaziente, perché disoccupata. Sì, disoccupata.

Devo solo guidare. Guido e già mi annoio. La mente corre a pensare che altro può fare mentre regge il volante e mentre la radio parla di cultura e di altre cose interessantissime.

Eppure mi annoio. Ecco potrei fare una telefonata. Con la mano rovisto nella borsa che è sul sedile di fianco oppure per terra. Incredibile non la trovo. Guardo le altre auto, alcune corrono davvero troppo. E’ pericoloso cercare in queste condizioni. Ma è più forte di me, ho bisogno del cellulare. Eppure il cellulare non c’è. Mi accanisco sulla borsa e a tratti perdo la strada, perché mi concentro sulla ricerca della borsa. Improvvisamente ho paura. Lo sguardo ritorna sulla strada. Ho trovato il cellulare che poso tra le mie gambe, apro la custodia con la dimistichezza di un cieco che cerca a tastoni la porta d’uscita. So che sto sbagliando ma non riesco a fermarmi. Il motivo è che mi sto dicendo: è l’ultima volta, ti prego lo faccio per l’ultima volta dopo questa telefonata non lo farò più. Eccolo aperto, ma ora devo guardarlo per sapere come fare la telefonata. Devo distogliere lo sguardo dalla strada.

Non dovrei, una voce sottile mi richiama, inascoltata, si fa sempre più fievole e distorta, mentre sto già facendo il numero. Non devo farlo - penso -, mentre lo faccio, e ricordo la definizione di un alcolista regalatami da un medico esperto di dipendenze: “é colui che ha giurato che da oggi, da ora, non berrà più e, mentre lo dice, ha già alzato il bicchiere per bere, come sempre”. E’ pericoloso, penso, ma aggiungo è solo l’ultima telefonata poi non ne faccio più, prometto al mio io drogato, ben sapendo che non lo rispetterò.

Il telefono messo in viva voce, ora suona, le auto corrono molto forte, non lo devo fare più è sbagliato ed è pericoloso.

Ma visto che non ascolto quella vocina sottile che si è rifatta viva, la mente mi ricorda qualcosa di più spaventoso che morire, visto che morire non è un deterrente capace di fermarmi. La mente civile mi sta dicendo “Ehi tu, guarda che qui a Treviso ci sono i vigili in motoretta vestiti da civili che si affiancano alla macchina per guardare dentro e vedere se l’autista è al telefono”.

Dio mi tolgono la patente!

“Pronto, pronto sono io”, urlo, “volevo sapere quando posso venire”. Oddio non sento, ci vorrebbe l’auricolare.

Cade la linea. Ecco meglio, non devo farlo più. L’auricolare sarà aggrovigliato a chissà che cosa nel fondo della mia borsa. Non posso trovarlo, se non gli dedico almeno mezzo minuto, troppo per stare al volante in mezzo a questi matti che corrono. Chissà dove vanno. Ho già le mani nella borsa, perché questa volta sono sicura il filo auricolare lo trovo subito, e invece non lo trovo. Una macchina mi sorpassa e non l’avevo vista. Dio, che angoscia.

Ora ricordo di quella pubblicità orrenda che stanno trasmettendo alla tv. Una ragazza bella e giovane su fondo nero dice: “Rifarei tutto di quella sera, venire da te portarti il regalo, solo non avrei fatto quella telefonata prima di arrivare. Perché? Perché oggi sarei ancora viva”.

E’ morta? Chiaro no, anzi sì. E’ una pubblicità dissuasiva. Potente, dico, mentre cerco il cellulare. Ma ora ho davvero troppa paura, chiudo e getto il telefono sul sedile.

Non lo voglio guardare, non lo voglio toccare né usare, no, non più. Il telefono se ne sta lì solo, inutilizzato, provo un senso di dispiacere, ma proprio non ce la facevo più e finalmente tiro un respiro di sollievo.