CONTROCORRENTE: DA PADOVA ALLA TV DI YOUSSOU NCosa ci fa una giovane padovana in diretta sulla TFM, l’emittente televisiva fondata in Senegal dal famoso cantante Youssoun N'Dour
Afriknow 10 ottobre 2016
Cosa ci fa una giovane padovana in diretta sulla TFM, l’emittente televisiva fondata in Senegal dal famoso cantante Youssou N’Dour?
La risposta è semplice: la conduttrice.
È questa in estrema sintesi la storia di Chiara Barison, trentaseienne veneta che da tre anni si è trasferita nel Paese africano dove – dopo aver aperto un blog – si è ritrovata catapultata nel piccolo schermo e, da lì, nelle case di migliaia di senegalesi. Una migrazione al contrario la sua – rispetto alle “rotte” solitamente raccontate dai media europei – che risulta però molto più frequente di quanto si immagini: sono, infatti, migliaia i giovani europei che, in questi ultimi anni, hanno cercato fortuna nel continente. Anche se, come ci racconta lei stessa, per avere successo occorrono impegno, formazione e sacrificio.
Perché l’Africa può essere la terra delle opportunità, ma bisogna saperle coglierle. Noi di Afriknow l’abbiamo incontrata per farci raccontare come si vive da migranti in Senegal e lei ci ha restituito l’immagine di un Paese lontano dagli stereotipi.
Chiara perché hai scelto il Senegal?
Per caso o per destino, non l’ho ancora capito. Era il 2001 e avevo appena terminato l’Erasmus ad Amiens, in Francia. In quel periodo ho conosciuto parecchi amici provenienti dal Senegal e uno di questi, Oumar, mi invitò per le vacanze a Dakar, la sua città natale. Non me lo feci ripetere, per me l’Africa era un’entità lontana, quasi indefinita ed ero curiosa di vedere un mondo che mi sembrava lontanissimo. Una volta arrivata rimasi colpita da una città moderna e viva. Un’immagine lontana dallo stereotipo che mi ero creata ed in quel preciso istante ho realizzato che in Italia, nulla delle differenti realtà africane ci è mai stata davvero insegnata, raccontata o detta.
Tutto il resto è stato un susseguirsi di eventi: la mia tesi di laurea in metodologia della ricerca sociale sulla trasmigrazione senegalese e la tesi di dottorato in politiche transfrontaliere sulla tematica del confine tra Senegal e Gambia che mi ha riportato in Senegal; il suggerimento di Mamadou, fisico nucleare, con cui abbiamo condiviso lunghi pomeriggi di studio all’università pubblica Cheikh Anta Diop, di aprire un blog (Dakarlicious) e, infine, il lavoro come conduttrice alla TFM, la televisione di proprietà del celebre cantante Youssou’N’Dour.
Da allora sono passati tre anni: è stato difficile il tuo inserimento in Senegal? Non è stato facile, direi che è stato un lungo, faticoso e a tratti doloroso percorso di rimessa in discussione di me stessa. Ho imparato cosa significa essere “diversi” e che, a volte, la nostra diversità può essere un ostacolo o un motivo di denigrazione e di esclusione. La televisione mi ha aiutato molto in questo senso perché mi ha permesso un’integrazione più veloce. Oggi nessuno mi tratta più da “toubab” ma sono semplicemente Chiara, ovvero me stessa, con tutti i benefici che implica uscire da una visione stereotipata del bianco in Africa.
Nonostante le difficoltà che la migrazione comporta (e questo per qualsiasi migrante ed in qualsiasi luogo) sono enormemente riconoscente al Senegal, un paese che mi ha insegnato molto e che mi ha dato molto in termini di realizzazione professionale.
Da quando sei in Senegal com’è cambiata la società?
Trovo che come altrove ci sia stata una repentina perdita di valori che ha trasformato una società basata sulla solidarietà genuina in una dove un diffuso parassitismo familiare pesa sulle spalle di pochi; una società che premia l’avere piuttosto che l’essere e dove molti si sono piegati ad un sistema pressapochista e pigro che poco investe sulla professionalità e la qualità; ed è un peccato perché il Senegal è un paese dalle enormi potenzialità e che potrebbe davvero diventare in un futuro prossimo uno degli attori di rilievo del panorama africano. Pensiamo alla sua posizione geografica e alla stabilità politica che da sempre esiste. Il Senegal è uno dei pochi paesi africani, se non il solo, dove ha sempre regnato la pace e dove l’azione politica di Leopold Sedar Senghor (il primo presidente) orientata alla valorizzazione della cultura e all’educazione al rispetto della diversità si può percepire fino ad oggi. Un paese dove le persone hanno una creatività e un ingegno degni di merito, capace di attirare a sé tantissimi stranieri nonostante la mancanza di risorse naturali. La diaspora può in questo senso essere la chiave del cambiamento, perché dopo tanti anni passati all’estero può avere quello sguardo distaccato che permettere di vedere ciò che in Senegal non va, potendo al tempo stesso essere l’esempio che un altro Senegal è possibile.
Come valuti l’immigrazione da e verso il Senegal? Storicamente il Senegal è sempre stato un paese d’immigrazione prima di essere paese d’emigrazione. La famosa “teranga”, ovvero l’accoglienza, è reale, specialmente nelle zone rurali. Il Senegal ospita 84 differenti comunità straniere che convivano pacificamente tra loro. La mancanza di lavoro e l’alto costo della vita favoriscono purtroppo l’emigrazione di molti giovani senegalesi. Una ricerca condotta dal professore Pape Demba Fall, direttore del dipartimento di scienze umane dell’IFAN (Dakar) ha dimostrato che il 75% di giovani tra i 18 e i 35 anni, potendo, partirebbe verso l’Europa perché questi giovani preferiscono di gran lunga la morte fisica alla morte sociale. Come dicevo prima, in una società che premia l’avere, tutti cercano di accumulare il più velocemente possibile e la migrazione diventa la scorciatoia più facile.
uenze dell’immigrazione verso l’Europa – a partire dalle morti in mare – sono catastrofici. I media senegalesi ne parlano? Sì. La sensibilizzazione fatta è enorme: reportage, documentari, film, inchieste, dibattiti. Ciò nonostante partire rimane un miraggio per molti, convinti ancora che l’unica realizzazione possibile sia altrove. Bisognerebbe mostrare ai giovani che un’altra possibilità c’è e che molti sono i senegalesi che si sono realizzati in patria. Bisognerebbe inoltre educare a migrare nella legalità e a specializzarsi e a prepararsi al viaggio piuttosto che lanciarsi in avventure che, nella maggior parte dei casi, risulteranno fallimentari.
Che messaggio dai agli europei che vogliono andare in Senegal (o più in generale in Africa) e ai senegalesi della Diaspora? Inizierei mettendo in guardia gli europei contro ciò che definisco «il razzismo inconscio»: il pensare di essere superiori rispetto agli africani, ancor più fastidioso quando intriso di falso buonismo e pietismo caritatevole. A chi pensa un progetto migratorio in Senegal dico di prepararsi e visitare il paese per diversi lunghi periodi prima di decidere un trasferimento definitivo. L’idea che la realizzazione qui sia facile, specie per un bianco, è un falso mito. Bisogna cominciare a capire che se si è mediocri in patria, si sarà mediocri anche qui. E allora se ti piace cucinare per gli amici il fine settimana in Italia ma non sei chef di professione, non lo diventerai sicuramente in Senegal perché bianco. Non c’è da stupirsi che molti falliscano perché non professionali e impreparati. Inoltre a Dakar il costo della vita è elevato e gli stipendi spesso bassi. Per vivere decentemente servono almeno mille euro al mese ed avere uno stipendio di mille euro al mese in Senegal non è facile, serve tempo e pazienza. Chi arriva incosciente della realtà, fallisce perché, come dico spesso, passare dall’afro-entusiasmo all’afro-delusione è davvero un attimo. Consiglio alle persone di essere piuttosto afro-realiste: conoscere, prepararsi, viaggiare, capire e crescere piano piano. Questo è stato fondamentale e necessario anche a me per poter realizzare i miei progetti. Per chi pensa che il colore della pelle sia una chiave di riuscita in Africa si sbaglia di grosso.
E ai senegalesi? Ai senegalesi della diaspora dico di investire in qualcosa di produttivo e che possa creare posti di lavoro. A loro dico di non scoraggiarsi di fronte alle difficoltà del reinserimento sociale e lavorativo in patria e di non cadere nella trappola del riadattamento ad un sistema che vorrebbe tutti fermi ed incapaci di avanzare. Il vero cambiamento è nelle loro mani.