RECENSIONE L'INDICE - Canapè, zighinì e pelli di leopardo di Itala Vivan

Paola Pastacaldi L’AFRICA NON È NERA pp. 209, € 17, Mursia, Milano 2015

Il titolo di questo romanzo attira l’attenzione, opponendosi alla vulgata che vuole l’Africa nera e suggerendo che esiste anche un’Africa non degli africani, ma dei bianchi che la occuparono e abitarono in una lunga e tormentata storia di colonizzazione europea. Anche l’Italia ha avuto la sua Africa e i suoi insediamenti coloniali, nel più antico dei quali, l’Eritrea, si colloca la vicenda narrata da Paola Pastacaldi, che scrive anche per ripercorrere, attraverso la finzione romanzesca, una storia famigliare. L’autrice infatti discende da un nonno che visse nella colonia e da una nonna etiope, di Harar, e ritorna su questi temi, avendo al suo attivo un precedente romanzo, Khadija (Pequod 2005), ambientato in Etiopia.

L’Africa non è nera si svolge fra Asmara e Massaua in un’epoca che va dal 1936 al primo dopoguerra e mette a fuoco l’immigrazione veneta nella colonia, fino alla sconfitta italiana e all’occupazione inglese che porterà alla graduale dispersione dei coloni italiani. In questo quadro si muovono i personaggi italiani (primi fra tutti l’imprenditore trevigiano Francesco Bellio e la figlia Lidia) e gli eritrei che lavorano al loro servizio, oltre ad alcuni meticci, come il bel Pietro, di cui s’innamora Lidia. La storia d’amore di Pietro e Lidia è breve, anzi fulminante, come si conviene a un’atmosfera da fotoromanzo e si conclude in un disastro, tra le complicazioni psicologiche e culturali del ganimede meticcio, e la leggerezza di Lidia, degna figlia dell’Italia dei telefoni bianchi. L’aspetto interessante del romanzo sta appunto nel restituirci un mondo coloniale falsamente felice, frivolo e incapace di valutare il proprio precario presente: e questa atmosfera di agio e facile ricchezza, che non si rapporta al contesto di sfruttamento e oppressione che la circonda è forse il suo più positivo aspetto critico. La vicenda scivola rapida fra balli, falò, ricevimenti e feste, mentre il linguaggio carico ed esuberante non consente di riflettere, perché il clima effimero e anche fasullo trascina via con sé il lettore. Se i personaggi sono convinti che il loro mondo sia una sorta di eden, il romanzo non suggerisce possibilità di altre valutazioni, come se i coloni italiani in Eritrea non potessero che essere razzisti, colonialisti e ciechi. Il libro potrebbe godere troppo facilmente del favore di lettori nostalgici i quali intendano esplorare e illuminare storie personali o famigliari magari anche lontane perché manca di una robusta intelaiatura storica di supporto. L’Africa non è nera va ascritto allo stesso filone di romanzi che rivivono l’infanzia vissuta in un Kenya esoticamente paradisiaco, o in un’Uganda lussureggiante, rimpiangendo quell’intermezzo esotico che consentiva di esistere senza pensare.

L’esotismo entra strisciante anche qui, soprattutto tramite il linguaggio che non sfugge a figure e situazioni stereotipate, complice la voluttà dei sensi che esplode nel calore tropicale: scene di amplessi descritti con tocchi quasi dannunziani nei particolari delle vesti indossate soltanto per essere tolte in un baleno, o dei letti coperti da pelli di leopardo e sovrastati da baldacchini. Una sottotrama esemplare da questo punto di vista è quella della relazione della bianchissima Angela con il nero Abdum, un ex ascaro con cui si accoppia voluttuosamente nelle ore notturne, per poi immergersi in un bagno purificatore, “nel biancore trasparente e profumato che fluiva dal rubinetto per scordare le mani scure dalle palme luminose e rosa e la voce che parlava, cantando la musica dei villaggi”. Angela è attirata dall’alterità dell’africano che deve rimanere tale, inconoscibile, per mantenere la tensione, l’attrazione sessuale. “Sprigionava dalla pelle di Abdum un nuovo odore, aspro, che le rimaneva sul corpo umido. Ah, le grandi mani, che la stringevano fino a mozzarle il fiato, come la ossessionavano. Talvolta Abdum aveva ripreso a parlarle dei suoi antenati e della sua vita di soldato. Ma Angela non lo ascoltava”.

Anche la relazione fra la giovane Lidia e il meticcio Pietro, un tombeur de femmes di marca coloniale, è costellata di accenti esotici. Lidia fa il suo ingresso ad Asmara diffondendo intorno a sé un “profumo intenso di giovane donna” e si tuffa nella società coloniale in una sorta di “girotondo esaltante”, sino a che incontra Pietro che, “disteso sul canapè dell’albergo come un principe arabo”, racconta le sue avventure. “Da quando era arrivata ad Asmara” ‒ pensa Lidia ‒ “si sentiva di vivere dentro un film, una commedia, insomma dentro qualcosa di irreale, che però accadeva veramente e sfilava davanti i suoi occhi con lei come protagonista”.

Gli odori assumono un ruolo di prima importanza nel romanzo e contrassegnano emozioni e stati d’animo, sottolineando diversità e alterità razziali. Anche Pietro porta con sé dei sentori particolari, acuti e sconvolgenti, che si preciseranno con crudezza nell’ultima fase della loro relazione, cioè dopo il matrimonio, quando Lidia sarà costretta a vivere con la madre del marito e mangiare il piccante zighinì intingendo le dita in un unico piatto posto al centro della tavola. È come se Pietro le imponesse una sorta di regressione non in nome di un apprendistato affettivo, ma come forma di dominazione vendicativa.

Qua e là, nel romanzo, nelle precise e dettagliate topografie, si affacciano descrizioni della nuova Asmara: “La città era piena di architetture slanciate, di torri, di strane finestre a oblò, di feritoie, di edifici dai colori albicocca, turchesi, bordeaux, verde lime e oro pallido dagli strambi comignoli. C’erano l’università, l’ospedale, la posta. Le cupole della chiesa ortodossa, rosse e marroni, il minareto azzurro e sottile, il campanile gotico della cattedrale. Nel vedere la fontana di Mai Jah-Jah, dove l’acqua sembrava camminare sul dorso di una collina, Lidia esplose con le mani sul petto per la gioia: ‘È una città bellissima, papà’”. In questa scena c’è già, in nuce, la vicenda che irretirà la giovane in una via senza uscita: un panorama nuovo anche se con connotazioni tutte italiane e un’esaltazione, uno smarrimento di sé nella dimensione senza confini della colonia. Sappiamo che ad Asmara la colonizzazione italiana introdusse un piano regolatore d’avanguardia ed eresse edifici di stile razionalista, creando un esempio eccezionale di architettura coloniale europea. Sappiamo pure che oggi quella città sta andando in rovina e che il governo eritreo si è ripetutamente rifiutato di restaurare un contesto che viene avvertito come estraneo e ostile. Ebbene, l’entusiasmo di Lidia rientra proprio nello spirito della colonizzazione, nella dichiarata volontà civilizzatrice che mascherava mille forme di razzismo e oppressione mantenendo viva la percezione di alterità; e la sua ingenuità di brava ragazza borghese non appare più tale, se si guarda alla storia dell’Africa non dal punto di vista del colonialismo italiano, ma da quello delle popolazioni africane, in questo caso, degli eritrei.

Dal romanzo emerge la cifra che il nostro colonialismo ha avuto, il suo inevitabile e prevedibile fallimento, la sua rovinosa e meschina illusorietà. E tutto ciò sa di dramma nazionale, più che di avventura da fotoromanzo.

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